PREFAZIONE. La crescente integrazione economica internazionale, o globalizzazione, come viene comunemente chiamata, offre molte opportunità, afferma un documento della Commissione europea. Le aziende dell’UE possono accedere più facilmente a nuovi mercati in espansione e alle fonti di finanziamento e tecnologia. I consumatori dell’UE hanno a disposizione una più ampia varietà di prodotti a prezzi inferiori. Ciò offre potenziali vantaggi significativi per l’Unione, in termini di maggiori livelli di produttività e aumento dei salari reali. La Commissione europea calcola che circa un quinto del miglioramento del tenore di vita nell’UE-15 negli ultimi 50 anni è attribuibile alla globalizzazione. Per questa ragione, continua la Commissione europea, l’UE ha assunto un atteggiamento decisamente favorevole ad una maggiore apertura economica. La sua politica commerciale si è rivelata un importante strumento per guidare la liberalizzazione degli scambi a livello mondiale.
L’opinione pubblica, tuttavia, nota la Commissione europea, associa spesso la globalizzazione alla perdita di posti di lavoro, alla diminuzione dei salari e al peggioramento delle condizioni di lavoro. Questo atteggiamento negativo si fonda sul timore che la maggiore concorrenzialità dei paesi con bassi costi salariali eserciti un’eccessiva pressione sui produttori e sui lavoratori locali, con la conseguente chiusura, totale o parziale, di stabilimenti produttivi nel proprio paese e la loro delocalizzazione all’estero. Sebbene non si tratti di preoccupazioni nuove, esse sono state esacerbate dall’irrompere di Cina e India sulla scena del commercio mondiale. In particolare, il diffuso ricorso alle tecnologie dell’informazione rende sempre più sfumato il confine tra ciò che può o meno essere oggetto di scambio.
Il tentativo di trovare una risposta adeguata alla globalizzazione può essere considerato un aspetto della sfida politica generale cui devono far fronte le economie dinamiche, cioè quella di gestire con successo i mutamenti strutturali dell’economia. Per raccogliere i frutti della globalizzazione è necessario passare attraverso un processo di adeguamento, poiché i fattori di produzione – come, ad esempio, il capitale d’investimento – si spostano dalle attività e dalle aziende che non sono in grado di far fronte alle maggiori pressioni concorrenziali verso quelle che invece ne escono vincenti. Tuttavia, sebbene sia dimostrato che la globalizzazione non è stata accompagnata da una generale perdita netta di posti di lavoro, l’adeguamento delle strutture economiche genera dei costi a causa del trasferimento di risorse tra aziende e attività. Maggiore è la rigidità dei mercati del lavoro, dei capitali e dei prodotti, maggiori sono i costi di questo aggiustamento strutturale di cui risentiranno fortemente, almeno nel breve periodo, determinati settori e le regioni in cui essi si concentrano.
La sfida politica consiste nel trasformare i potenziali benefici della globalizzazione in vantaggi concreti, minimizzando al contempo i costi sociali. L’adozione di misure volte a migliorare il funzionamento dei mercati dell’UE e ad incentivare l’innovazione contribuirà ad abbreviare il processo di aggiustamento, mentre con misure mirate, come il Fondo europeo di adeguamento alla globalizzazione, si potranno aiutare i lavoratori che subiscono le conseguenze di tale fenomeno. Oltre alle questioni interne, l’UE deve fronteggiare anche problemi esterni che richiedono adeguate risposte politiche, tra cui:
– sviluppo del commercio mondiale e mantenimento della posizione dell’Europa quale primo blocco commerciale a livello mondiale
– gestione dei flussi migratori quale fonte di forza lavoro, rimedio all’invecchiamento demografico e fattore di sviluppo
– mantenimento della posizione dell’UE quale luogo di provenienza e destinazione di investimenti esteri diretti (IED) e gestione degli squilibri nell’economia mondiale in collaborazione con i paesi partner.
La Commissione svolge un ruolo importante, conclude la stessa Commissione europea, nella definizione di una strategia politica coerente volta ad affrontare le sfide della globalizzazione. Essa segue con attenzione l’evoluzione delle principali tendenze nel commercio mondiale e dei flussi di IED, oltre che della posizione dell’UE sotto tali profili. Valuta inoltre periodicamente l’impatto della globalizzazione sull’andamento economico dell’UE e formula suggerimenti alla luce delle sue analisi.
Ora, le cose così semplici e coinvolgono problemi pratici e teorici di non facile soluzione a cominciare da aquello della definizione di benessere.
QUALE BENESSERE. Un acceso dibattito si è sviluppato negli ultimi anni per pervenire a una definizione degli indicatori dei livelli di b. − fra gruppi sociali presenti all’interno delle singole economie e fra paesi diversi − più congrua di quanto non potesse derivare utilizzando i sistemi di misurazione aggregata di tipo economicistico. Tradizionalmente gli economisti hanno infatti espresso il b. sociale con alcuni indicatori quantitativi, quali gli indici di produzione e di consumo di beni e di servizi, il livello di reddito, il tasso di disoccupazione e di crescita industriale. Nel dopoguerra inoltre, con la definitiva affermazione dell’economia keynesiana, si è imposta una forma di misurazione aggregata − come il Prodotto Interno Lordo − quale unica variabile per la misurazione del b. economico. Si tratta tuttavia di una definizione insufficiente, sia perché il PIL esclude in realtà tutti quei prodotti e servizi che sfuggono a una valutazione di mercato, sia perché non considera i costi sociali (di tipo ambientale, psicologico-sociale, ecc.) che incidono sulla reale struttura di un’economia.
Assumere la crescita del PIL come indicatore dell’aumentato b., infatti, fa sì che virtualmente tutti i beni e servizi, compresi i costi sociali, siano soggetti a una determinazione monetaria e siano inclusi nel sistema degli scambi di mercato. In secondo luogo, si presuppone la condizione irrealistica, nelle moderne società industriali, della ‘sovranità’ del consumatore nella determinazione del valore dei beni. In tal modo si assume che le quantità fisiche di beni prodotte da un individuo, il b. e il valore d’uso dei beni da questo consumati siano tra loro legati da un rapporto diretto.
A partire dalla seconda metà degli anni Sessanta, il movimento degli indicatori sociali (T. Scitovski, E. Gross, A. Shonfield e S. Shaw) ha prodotto − soprattutto nei paesi maggiormente industrializzati (Stati Uniti, Gran Bretagna, Giappone, Francia) − una copiosa letteratura avente per oggetto la determinazione del b. reale, unitamente alla definizione di numerosi strumenti tesi a schiudere la natura e il funzionamento del sistema sociale in modo più completo di quanto non potesse derivare dai tradizionali misuratori economici aggregati, che oscuravano i caratteri non egualitari della crescita delle moderne società industriali.
Assumendo il concetto di b. in termini essenzialmente qualitativi, un indicatore sociale rappresenterebbe una misurazione indiretta e composita della qualità della vita e della soddisfazione che non sempre sono funzione diretta e lineare dei livelli di ricchezza e di consumo. Le variabili da analizzare avranno quindi per oggetto, accanto alle funzioni economiche, fattori come l’istruzione, le condizioni di salute della popolazione, l’ambiente di vita, l’organizzazione e l’alienazione sociale (J. Drewnowski e W. Scott). In assenza di una teoria sociale compiuta che fornisca gli strumenti di misurazione diretta dei sistemi economici contemporanei, un indicatore sociale non sarà quindi inteso in termini di input di un sistema sociale (cioè quantificabile mediante variabili definite a priori), bensì in termini di output, ovvero quale rappresentazione indiretta dei livelli di soddisfazione dei bisogni primari espressi da ogni gruppo statalmente o regionalmente organizzato.
L’assunzione di un concetto ampio e di difficile definizione, come quello di b., solleva a sua volta dei problemi che non possono trovare una soluzione unitaria. I criteri di definizione del b. variano infatti considerevolmente per ogni sistema sociale, sia in ragione dei giudizi di valore, sia per la loro inseparabilità rispetto a un altro fondamentale concetto − quello di giustizia sociale − anch’esso relativo e subordinato a determinazioni che variano nel tempo oltre che fra i diversi gruppi sociali. Ogni confronto internazionale delle condizioni di b. può quindi ingenerare rilevanti errori d’interpretazione: così, se un livello adeguato di nutrizione, salute, vestiario, possono considerarsi quali condizioni di b. minimo presente in ogni sistema sociale − e come tali definite come bisogni essenziali per la sopravvivenza − ogni società esprimerà bisogni altamente differenziati di tipo culturale, relativi alla sicurezza e al tempo libero, che sono parte integrante nella definizione di un adeguato livello di qualità della vita. Gli stessi indicatori comunemente utilizzati dalle Nazioni Unite in ambito internazionale sono anch’essi frutto di convenzioni fra gli studiosi di scienze sociali: a questo riguardo, le componenti di base del b. sociale ritenute valide per tutti i paesi del mondo sono il livello di nutrizione, la protezione personale, la salute, l’educazione, il tempo libero, la sicurezza, la stabilità sociale, la protezione ambientale, il surplus di reddito.
Negli anni recenti si è definitivamente accettato che anche all’interno di una data area territoriale (una regione, una città) le variazioni nei livelli di vita siano tali da richiedere una disaggregazione spaziale delle condizioni sociali. Questa acquista un’indiscussa importanza non soltanto a scopi analitici (cioè per la comprensione dei fondamentali processi e meccanismi inerenti ogni società), ma soprattutto nella definizione delle politiche di pianificazione, tese all’allocazione spaziale di quegli elementi potenzialmente capaci di riequilibrare i sistemi sociali contemporanei.
In questo quadro, di fronte all’impossibilità di fornire concretezza analitica a concetti essenzialmente astratti, la definizione della qualità della vita e la determinazione dei bisogni in termini di privazione relativa (W. G. Runciman, D. Harvey) apportano un criterio maggiormente coerente. Sotto questa luce, un individuo − o un gruppo d’individui − sarebbe relativamente privato (e quindi esprimerebbe un bisogno) se desidera beni e servizi che solo altri possiedono, ma dei quali non può attualmente disporre. Egli esprime quindi una privazione nel momento in cui percepisce che non sono alla sua portata alcuni beni e servizi la cui disponibilità consentirebbe di accrescere il suo livello di benessere. Ora, la correlazione b.-soddisfazione dei bisogni non esiste se non all’interno di una data società, in un periodo storico preciso, in un’area territoriale data, dove le condizioni di b. di un individuo o di un gruppo diventano automaticamente relative rispetto ad altre classi sociali e ad altre delimitazioni territoriali.
È quindi soprattutto in termini di geografia del b. che la problematica ha acquistato piena coerenza, sebbene aggiungendo la dimensione spaziale dei fenomeni economico-sociali si accrescano le difficoltà analitiche. La trasformazione degli indicatori sociali in indicatori socio-territoriali (A. Shonfield, S. Shaw, N. E. Terlecki, D. Smith) è un processo relativamente elementare che consiste nel riferire le componenti del b. prima ricordate a specifiche porzioni di territorio (urbano, regionale, nazionale) e nell’aggiungere altre componenti specifiche in rapporto alle diverse condizioni esaminate. Tuttavia è sul piano operativo e concettuale che, attraverso la spazializzazione della funzione del b. sociale, si affacciano le ipotesi più significative.
Dal punto di vista delle strategie di pianificazione i livelli locali di b. possono essere determinati in rapporto alle esternalità prodotte da specifici interventi (come investimenti infrastrutturali, industriali, ecc.) di cui devono essere colti gli effetti di utilità e/o disutilità, i quali possiedono una connotazione intrinsecamente spaziale, sovente indicata come effetto di vicinato.
Verificandosi un’esternalità, si realizza un processo di travaso dei benefici (come, per es., le occasioni di occupazioni indotte dalla localizzazione di un nuovo stabilimento industriale) e/o dei costi (come gli effetti d’inquinamento prodotti dallo stesso) che assumono varie configurazioni alternative: a) il mantenimento di entrambi all’interno dell’area in questione; b) il confinamento dei benefici e la diffusione alle aree adiacenti dei costi relativi; c) infine la condizione opposta, ovvero il confinamento dei benefici accompagnato al trasferimento dei costi. Su questo piano, la definizione dell’area di esternalità e l’applicazione dell’analisi costi-benefici gioca un ruolo determinante concorrendo alla ridefinizione degli strumenti della politica di pianificazione territoriale.
QUALE GLOBALIZZAZIONE. Col termine g. si intende, il fenomeno di unificazione dei mercati a livello mondiale, consentito dalla diffusione delle innovazioni tecnologiche, specie nel campo della telematica, che hanno spinto verso modelli di consumo e di produzione più uniformi e convergenti. Da un lato, si assiste, infatti, a una progressiva e irreversibile omogeneità nei bisogni e a una conseguente scomparsa delle tradizionali differenze tra i gusti dei consumatori a livello nazionale o regionale; dall’altro, le imprese sono maggiormente in grado di sfruttare rilevanti economie di scala nella produzione, distribuzione e marketing dei prodotti, specie dei beni di consumo standardizzati, e di praticare politiche di bassi prezzi per penetrare in tutti i mercati. L’impresa che opera in un mercato globale, pertanto, vende lo stesso bene in tutto il mondo e adotta strategie uniformi, a differenza dell’impresa multinazionale, il cui obiettivo è invece quello di assecondare la varietà delle condizioni presenti nei paesi in cui opera.
Il termine g. è spesso usato, come sinonimo di liberalizzazione, per indicare la progressiva riduzione, da parte di molti paesi, degli ostacoli alla libera circolazione delle merci e dei capitali. Questo, tuttavia, è solo un aspetto dei fenomeni di g., che comprendono, in particolare, una tendenza al predominio sull’economia mondiale da parte di grandi imprese multinazionali, operanti secondo prospettive sempre più autonome dai singoli Stati, e una crescente influenza di tali imprese, oltre che delle istituzioni finanziarie internazionali, sulle scelte di politica economica dei governi, in un quadro caratterizzato dall’aumento progressivo dell’integrazione economica tra i diversi paesi, ma anche dalla persistenza (o addirittura dall’aggravamento) degli squilibri fra questi. Tali fenomeni scaturiscono dai processi di integrazione internazionale sviluppatisi nel 19° sec., interrotti nella prima metà del Novecento dalle guerre mondiali e dalla Grande depressione, e ripresi nella seconda metà (soprattutto dopo il 1960) con rinnovato vigore. Tra gli ultimi decenni del 20° e gli inizi del 21° sec. il progresso tecnologico, divenuto sempre più veloce, ha ridimensionato le barriere naturali agli scambi e alle comunicazioni, contribuendo alla forte crescita registrata dal commercio internazionale e dagli investimenti diretti all’estero. In particolare, la diffusione delle tecnologie informatiche ha favorito i processi di delocalizzazione delle imprese e lo sviluppo di reti di produzione e di scambio sempre meno condizionate dalle distanze geografiche, alimentando la crescita dei gruppi multinazionali e i fenomeni di concentrazione su scala mondiale; ha favorito inoltre un’espansione enorme della finanza internazionale, tanto che il valore delle transazioni giornaliere sui mercati valutari è divenuto ormai superiore allo stock delle riserve valutarie esistenti. Contemporaneamente, la tendenza alla riduzione degli ostacoli, di ordine tariffario, fiscale o normativo, alla libera circolazione delle merci e dei capitali si è approfondita ed estesa, coinvolgendo anche molti paesi, ex socialisti o in via di sviluppo, che in passato avevano adottato politiche assai più restrittive.
I fenomeni sopra ricordati hanno suscitato un ampio dibattito. Secondo alcuni studiosi, la g. può esercitare effetti positivi sull’economia mondiale sotto il profilo sia dell’efficienza sia dello sviluppo: in particolare, la liberalizzazione e la crescita degli scambi commerciali e finanziari potrebbero stimolare un afflusso degli investimenti verso le aree meno dotate di capitali e favorire una tendenziale riduzione del divario economico fra i paesi sviluppati e quelli in via di sviluppo. Altri sostengono, invece, che, dati gli squilibri e le forti differenze (economiche, tecnologiche, culturali, politiche) esistenti tra i diversi paesi, nonché la presenza di condizioni di mercato assai lontane da quelle di concorrenza perfetta postulate dai modelli tradizionali, gli eventuali effetti positivi dei processi di g. non si distribuiscono in modo uniforme: in particolare, per i paesi in via di sviluppo tali processi possono comportare conseguenze anche molto sfavorevoli, mentre negli stessi paesi sviluppati si verifica un contrasto tra i settori sociali che traggono vantaggio dai processi di g. e quelli che invece ne sono danneggiati (per es., i lavoratori impegnati in attività produttive che vengono trasferite all’estero). Va inoltre tenuto presente che, in un quadro caratterizzato da una crescente integrazione internazionale e dalla stabilizzazione dei tassi di cambio tra le monete di diversi paesi, l’adozione, a fronte di squilibri e tensioni interne, di provvedimenti di carattere sociale o anticiclico viene resa più difficile dalla riduzione dell’autonomia dei singoli governi nella gestione della politica economica.
La g. riguarda non soltanto la produzione di merci ma anche delle idee. Le figure professionali ad alta qualificazione, in particolare ingegneri informatici, ma a basso salario presenti in alcuni paesi in via di sviluppo, soprattutto in India, hanno spinto molti colossi della produzione hi-tech a delocalizzare in questi paesi i laboratori di ricerca e sviluppo. Paesi come gli Stati Uniti, che tradizionalmente attraevano cervelli da ogni parte del pianeta, oggi vedono messo in crisi tale meccanismo dalla concorrenza di alcuni paesi in via di sviluppo.
L’indice più comunemente usato per valutare il grado d’integrazione dell’economia mondiale è il rapporto fra esportazioni e PIL nei diversi paesi. Questo rapporto, che aveva raggiunto un minimo storico dopo la Seconda guerra mondiale, è nuovamente cresciuto, nella maggior parte dei paesi, durante la seconda metà del 20° secolo. Per quanto riguarda la partecipazione al commercio internazionale, i paesi sviluppati hanno mantenuto un peso preponderante, anche se dal finire del secolo si è manifestata una tendenza alla crescita del ruolo dei paesi in via di sviluppo. A partire dagli anni 1980 si è assistito all’espansione di aree di integrazione regionale, come l’UE o il NAFTA, che, se da un lato accentuano i processi di liberalizzazione degli scambi tra i paesi membri, dall’altro possono favorire il mantenimento di barriere commerciali nei confronti degli altri Stati. I processi di integrazione commerciale hanno in ogni caso continuato a estendersi, sia per l’adesione, comunque diffusa, alle politiche di liberalizzazione degli scambi con l’estero, sia per la riduzione dei costi delle telecomunicazioni e dei trasporti indotta dall’incremento tecnologico, sia per gli investimenti da parte di imprese dei paesi industrializzati nei paesi in via di sviluppo.
La libertà di movimento dei capitali raggiunta verso la fine del 20° secolo è paragonabile a quella degli anni precedenti la Prima guerra mondiale, quando si era realizzato un alto grado di integrazione dei mercati finanziari (nel 1913 i rapporti tra i flussi totali di capitali e il commercio o la produzione mondiale erano superiori a quelli degli anni 1970). Dopo le restrizioni del periodo fra le due guerre, la seconda metà del secolo ha visto una graduale liberalizzazione, mentre rilevanti modifiche si verificavano per quanto riguarda l’origine e la composizione dei flussi di capitali. Tra la Seconda guerra mondiale e gli anni 1960 ampi flussi di investimenti esteri diretti, per lo più indirizzati verso l’industria manifatturiera e il settore petrolifero, provenivano dagli Stati Uniti, divenuti in quel periodo il maggiore esportatore netto di capitali. Nel corso degli anni 1970 il Giappone assunse un ruolo di rilievo, fino a diventare nel decennio successivo una delle principali fonti mondiali sia di capitali speculativi a breve termine sia di investimenti diretti. A partire dagli anni 1980 gli Stati Uniti sono stati caratterizzati da forti deficit della bilancia commerciale e da cospicue importazioni nette di capitali (con l’accumulo quindi di un ingente debito estero). A partire dagli anni 1980, inoltre, grazie anche allo sviluppo delle tecnologie informatiche e delle telecomunicazioni e alle politiche di liberalizzazione dei mercati finanziari, si è verificato un enorme aumento dei flussi speculativi a breve termine, che ha coinvolto gli stessi paesi in via di sviluppo, influendo pesantemente sull’andamento delle loro economie.
La crescita del debito e del rapporto debito/PIL nei paesi in via di sviluppo, spesso alimentata da processi cumulativi perversi (nuovo indebitamento per fare fronte ai debiti pregressi), ha inciso pesantemente sulla loro situazione economica, sociale e politica; in particolare, essi sono stati costretti a comprimere quanto più possibile la domanda interna (con gravi conseguenze sulle condizioni di vita della popolazione) nel tentativo di realizzare, malgrado l’andamento poco favorevole delle ragioni di scambio, onerosi attivi della bilancia commerciale e finanziare così il servizio del debito estero. All’inizio del nuovo millennio il problema del debito estero dei paesi in via di sviluppo rappresenta uno dei principali squilibri del processo di g. in corso.
Per quanto riguarda, infine, la Comunità Europea, a partire dal 1992 sono stati rimossi tutti i vincoli ai movimenti di capitali e si è verificata una progressiva perdita di autonomia dei governi nazionali nei campi della politica monetaria e dell’allocazione dei capitali all’interno dei paesi membri.
Aumenti della disuguaglianza tra paesi e all’interno dei paesi indotti dal progresso di integrazione vengono spiegati anche attraverso i mutamenti del mercato del lavoro, che hanno comportato un allargamento dei differenziali retributivi nei paesi industrializzati (wage gap). Il progresso tecnico avrebbe infatti ridotto marcatamente la domanda di lavoro a bassa qualifica (unskilled) a favore di quello a più alto contenuto di conoscenza (skilled). Data l’inerzia dell’offerta ad adeguarsi a questa maggiore domanda, questo ha di fatto creato un eccesso di domanda di lavoro a più alto contenuto di conoscenza che si è concretizzato in un incremento salariale di questi lavoratori. Il wage gap indotto dal progresso tecnico skill biased è visto come uno dei principali responsabili degli incrementi di disuguaglianza tra paesi ricchi e poveri ma anche all’interno dei paesi maggiormente industrializzati. Tuttavia questo meccanismo ha avuto impatti diversi nei paesi con differenti istituzioni a protezione dei lavoratori. Non è un caso che gli USA registrino un forte incremento di disuguaglianza indotto dal wage gap, date le scarse protezioni sociali e sindacali dei lavoratori a bassa qualifica. Nei paesi europei maggiormente sindacalizzati, questi effetti sono stati in parte mitigati dalla rigidità salariale.
POPOLAZIONE MONDIALE. Entro il 2100 la popolazione mondiale potrebbe raggiungere 11 miliardi di persone, ossia circa 800.000 in piu’ rispetto alle previsioni fatte nel 2011. Secondo lo studio prodotto da un gruppo di ricercatori dell’Universita’ di Washington per le Nazioni Unite, a spingere l’aumento demografico sara’ soprattutto l’Africa. In controtendenza l’Italia, che nei prossimi decenni proseguira’ sulla strada della ‘crescita zero’: entro il 2100 – secondo il rapporto Onu – si perderanno ben 6 milioni di abitanti. Ed entro il 2050 un cittadino italiano su due sara’ un ultrasessantenne, con l’ aspettativa di vita in costante aumento, salendo a 82,3 anni nel 2015 e ancora a 93,3 anni a fine secolo. ”La crescita della popolazione ha subito un rallentamento se considerata in maniera complessiva – ha spiegato il sottosegretario generale Onu per gli Affari Economici e Sociali Wu Hongbo – questo rapporto ci ricorda che alcuni Paesi in via di sviluppo, soprattutto in Africa stanno crescendo rapidamente”. ”In alcuni casi, l’effettivo livello della fertilita’ sembra essere aumentato negli ultimi anni, in altri casi, la stima precedente era troppo bassa”, ha aggiunto John Wilmoth, direttore della divisione popolazione del Dipartimento per gli Affari Economici e Sociali, il quale ha presentato il rapporto al Palazzo di Vetro di New York. ”Le piccole differenze nella traiettoria della fertilita’ nei prossimi decenni – ha aggiunto – potrebbero avere importanti conseguenze per quanto riguarda le dimensioni, la struttura e la distribuzione della popolazione nel lungo periodo”.
Secondo lo studio, entro fine secolo la popolazione mondiale superera’ dell’8% quelle che erano le previsioni fatte appena due anni fa. Per i ricercatori statunitensi, l’errore – ossia la sottostima – andrebbe ricercato in particolare nel mancato calo della fertilita’, previsto al ribasso, nel continente africano.
Le ultime stime, risalenti al 2011, relative alla crescita della popolazione mondiale avevano indicato che il pianeta avrebbe raggiunto entro la fine del secolo un numero di abitanti di circa 10,1 miliardi. I nuovi dati emersi in questi 2 anni hanno ora obbligato a rivedere la crescita entro il 2100 fino a 10,9 miliardi con la sola Africa che passera’ degli attuali 1,1 ai 4,2 miliardi di persone, un aumento di quattro volte la popolazione attuale.
”Questi nuovi dati – ha spiegato Adrian Raftery, uno dei responsabili dello studio – mostrano che c’e’ la necessita’ di rinnovare le politiche sociali nelle regioni africane, come ad esempio una migliore istruzioni per le ragazze e aumentare l’accesso alla pianificazione familiare”.
Nelle altre parti del mondo non si prevedono invece sostanziali cambiamenti rispetto a quanto stimato finora. L’Europa continuera’ a vivere un graduale declino a causa del basso numero di nascite, e le altre regioni assisteranno a modesti aumenti provocati dall’allungamento della vita media. Il maggiore exploit e’ previsto in Nigeria la cui popolazione aumentera’ di circa 5 volte, da 184 milioni a 914, seguita dall’India, unico paese non africano tra i primi 10, mentre il maggior calo interessera’ invece la Cina che passera’ da 1,4 miliardi a 1,1 nel 2100. Nonostante la sempre maggior raffinatezza degli strumenti previsionali, le stime elaborate hanno comunque importanti margini di errore, la stima di circa 11 miliardi e’ infatti all’interno di un intervallo molto attendibile che potrebbe oscillare tra i 9 e i 13 miliardi di persone nel 2100.
Dal punto di vista demografico, ha scritto il demografo Antonio Golini, il 20° secolo. e, in particolare, i suoi ultimi cinquant’anni, hanno visto una grande esplosione – questo è il termine comunemente usato – della popolazione mondiale, e una sua non minore trasformazione. Alla base di questi fenomeni vi sono, com’è noto, due grandi vittorie, che l’uomo ha da sempre ricercato ma che ha ottenuto appieno (peraltro non dappertutto) soltanto da pochi decenni: la vittoria contro la morte precoce che, percorrendo una lunga strada, prende le mosse dai vaccini di Edward Jenner alla fine del Settecento, e che ha comportato un crollo della mortalità; la vittoria contro le nascite indesiderate, che prende le mosse dalla ‘pillola’ di Gregory G. Pincus alla metà del secolo scorso, cioè 150 anni dopo Jenner, e che ha comportato un crollo della fecondità.
L’ampia differenza temporale esistente fra l’inizio dell’abbassamento della mortalità e l’inizio di quello della fecondità ha portato alla straordinaria crescita della popolazione prima citata. Questa è stata favorita dalla sempre maggiore disponibilità di energia e di cibo, che a partire dalla Rivoluzione industriale ha evitato il ritorno dei quattro cavalieri dell’Apocalisse – la fame, l’epidemia, la guerra, la morte – i quali non hanno più esercitato sulla crescita della popolazione un’azione devastante, com’era invece successo per millenni (Golini 20032; Livi Bacci 1989, nuova ed. 2005).
Nella storia contemporanea della popolazione mondiale, le migrazioni hanno giocato un ruolo di gran lunga meno importante. Questo è stato rilevante soltanto in alcuni e limitati casi e periodi, in particolare nel popolamento dei nuovi mondi e, di conseguenza, nell’allentare decisamente la pressione demografica, prima nei vecchi mondi, specialmente nell’Europa, poi anche nell’America Latina.
I guadagni nella durata media della vita sono stati davvero straordinari: nel mondo intero, fra il 1950-1955 e il 2000-2005 questa è passata da 47 a 65 anni, crescendo di 18 anni, cioè di 4,3 mesi per ognuno dei cinquant’anni di calendario. Tutto ha giocato a favore di una crescita tanto strabiliante: il miglioramento dell’igiene e dell’alimentazione; le case più protette dagli eccessi del caldo e del freddo; la medicina curativa e anche quella preventiva; l’ambiente di lavoro più sano e meno stressante per ritmi e orari; il poter contare su diritti individuali in tutte le sfere della vita, assicurandoli in particolare alla donna (con consistenti miglioramenti della sua salute e di quella dei suoi piccoli); l’aumento dell’istruzione e della cultura. Del tutto eccezionale il caso della Cina, dove negli stessi cinquant’anni la durata media della vita è passata da 41 a 72 anni, mostrando cioè un aumento di 7,5 mesi per ogni anno di calendario.
Gli strumenti facili, efficaci, diffusi ed economici per controllare le nascite indesiderate sono arrivati, come si accennava, molto dopo che si era cominciato a controllare la morte precoce, anche se questi strumenti sono condizione necessaria ma non sufficiente perché il controllo si attui. Infatti, le sovrastrutture culturali – quelle macro, consolidate nei secoli, e quelle micro, introiettate nel profondo delle coscienze – hanno fortemente e a lungo inciso sui tempi di conoscenza, accettazione, diffusione e uso della pillola e degli altri contraccettivi. Gli strumenti per il controllo delle nascite hanno peraltro contribuito (e vanno contribuendo) in misura decisiva, insieme con l’istruzione e il lavoro, a una diversa condizione della donna e, all’interno e all’esterno della casa, a una sua diversa socializzazione e interazione con tutti gli altri componenti della famiglia. È intuitivo come, a parità di altre condizioni, sia 2 (per l’esattezza 2,06) il numero di figli che assicura la crescita zero della popolazione, dal momento che 2 figli garantiscono nel ciclo delle generazioni la pura sostituzione dei genitori. Ebbene, nel 1950 nel mondo nascevano in media 5 figli per donna; dopo soli cinquant’anni si sono ridotti a circa la metà (2,6). Il contributo maggiore alla diminuzione della fecondità del mondo è venuto dalla Cina, dove il numero medio di figli per donna è sceso fra il 1950-1955 e il 2005-2010, in soli cinquantacinque anni, da 6,2 a 1,7, mentre il numero medio annuo dei nuovi nati è diminuito da 25,5 milioni (che vivevano in media 41 anni) a 17,5 milioni (che però si aspettano di vivere 73 anni). Ormai quasi la metà della popolazione mondiale ha una fecondità inferiore a 2 figli per donna, ed è quindi in una fase di declino virtuale, che diventerà reale mano a mano che usciranno dal gioco riproduttivo le generazioni assai affollate del passato. In varie aree del mondo, però, il tasso di fecondità è sceso da tempo molto al di sotto di 2, con grave pregiudizio della possibilità (demografica, economica e sociale) di una piena e completa sopravvivenza da parte della popolazione interessata, a meno di immigrazioni molto consistenti. Questo è il caso della popolazione dell’Europa, che ha ormai una fecondità pari a 1,4 figli per donna, o, più specificamente, dell’Italia o del Giappone, che da tempo ne hanno una pari a 1,3, con prospettiva di declino, perché più è bassa la fecondità più, a parità di altre condizioni, è forte il declino della popolazione e la velocità del suo invecchiamento. E infatti l’Italia e il Giappone – che godono entrambi anche di una forte longevità – sono i Paesi più vecchi del mondo. In casi come questi si pone il problema del se e per quanto tempo ancora sia possibile sopportare una così prolungata e bassissima fecondità.
Come detto, il ruolo delle migrazioni internazionali nello sviluppo delle popolazioni contemporanee è ridotto, o finanche ridottissimo, nonostante il clamore e le polemiche che così frequentemente suscitano le migrazioni nell’opinione pubblica e nelle formazioni politiche. A questo proposito, bisogna ricordare che l’immigrazione straniera costituisce in ogni caso un ‘trapianto’ di persone, non necessariamente compatibili e qualche volta decisamente in contrasto con il corpo sociale del Paese di arrivo, costituito da una popolazione consolidata e dotata di caratteristiche sue proprie. Quando l’afflusso avviene con velocità e intensità tali che permettono alle persone che arrivano e rimangono di essere gradualmente integrate, allora non si hanno fenomeni di rigetto, o se si hanno sono del tutto marginali. Tali fenomeni, in ogni caso, presentano tratti completamente diversi a seconda che l’immigrazione arrivi in un continente di ridotto o ridottissimo popolamento – com’erano i nuovi mondi un secolo fa – o in un continente di vecchio e intenso popolamento – com’è l’Europa – dove il tessuto sociale ha una sua strutturazione, in primo luogo culturale, consolidatasi e perpetuatasi nei secoli. Dal punto di vista statistico, c’è da considerare che i migranti e i loro discendenti sono difficilissimi da conteggiare, anche a causa delle diversità internazionali nelle normative, la più importante delle quali riguarda le modalità e i tempi di acquisizione della cittadinanza del Paese di arrivo; una volta che questa sia acquisita, infatti, i migranti e i loro discendenti ‘scompaiono’ dalle statistiche delle migrazioni. Questa è la ragione per la quale le Nazioni Unite contano nel mondo al 2005 ‘soltanto’ 191 milioni di migranti, peraltro cresciuti dal 1990 di 36 milioni, cioè di 2,4 milioni all’anno.
L’imprevedibile, ulteriore declino della mortalità che si sta avendo nelle età molto avanzate, il perdurare di una fecondità bassa o bassissima e i cambiamenti sociali legati alla nuova condizione della donna e alle mutate condizioni della formazione e della sopravvivenza della famiglia, sono fra gli elementi che si ritrovano alla base di una nuova transizione demografica, la quale sta conducendo il mondo (e in particolare i Paesi demograficamente ed economicamente più avanzati) verso nuove dinamiche e strutture della popolazione e della sua organizzazione sociale (Van de Kaa 1987; Lesthaeghe 1995). Nel lungo periodo, le maggiori conseguenze sono, quindi, un più o meno intenso e rapido declino della popolazione totale e un intensissimo e ‘sconvolgente’ mutamento nella struttura per età di tale popolazione, che si manifesta attraverso un suo progressivo, rapido, irrefrenabile, ma silenzioso, invecchiamento. In verità, quest’ultima conseguenza coinvolgerà anche le popolazioni dei Paesi in via di sviluppo, tutte o quasi caratterizzate da declino della fecondità: infatti, per effetto di un’inderogabile legge demografica, quanto più forte è la discesa della fecondità tanto più forte risulta essere, a parità di altre condizioni, l’invecchiamento della popolazione. Le tendenze al declino della fecondità e della mortalità, le intense migrazioni rurali-urbane – legate soprattutto alla modernizzazione dell’agricoltura, alla crescente industrializzazione, all’enorme crescita urbana, oltre che al grande sviluppo e diffusione dei servizi – così come le migrazioni internazionali, hanno largamente contribuito alla generalizzata, decrescente importanza della famiglia estesa. Per di più, i raggiunti maggiori livelli di istruzione, in particolare delle donne, hanno favorito, da un lato, la discesa della fecondità e della mortalità, dall’altro la crescente proporzione di famiglie nucleari. Il matrimonio ritardato, che ha conosciuto una straordinaria diffusione negli ultimi trent’anni, e un notevole aumento dei divorzi e della vita da single vanno influenzando dappertutto dimensione, durata e struttura delle famiglie. Alla luce delle considerazioni appena svolte, diventa davvero difficile e problematico prevedere sul lungo periodo tutte le variabili dinamiche che sono alla base dello sviluppo delle popolazioni (la mortalità e la durata della vita, il numero medio di figli per donna, il numero di migranti) e, di conseguenza, determinare il futuro dell’ammontare e della distribuzione territoriale di tali popolazioni.
Numerose risultano le speculazioni e le ‘esercitazioni’ di tipo biologico, medico, attuariale e statistico-demografico che sono state (e vengono) fatte per stimare la durata massima dell’aspettativa di vita, e che via via la spostano sempre più in là. Attualmente le organizzazioni e gli studiosi più accreditati che si occupano di questo tipo di problemi sono propensi a ritenere che la massima durata media di vita per un’intera popolazione possa essere individuata in 88-90 anni. Biologi e genetisti ipotizzano però che, con i progressi della genetica, della diagnostica, della farmacologia e della terapia individuale, questa possa arrivare anche a 120 anni. Per i Paesi economicamente progrediti il raggiungimento di tale traguardo è tutt’altro che scontato (e per gli altri sarebbe in ogni caso molto lontano), dal momento che durante il percorso si potranno incontrare fattori che, ove agiscano, avrebbero effetti positivi – fra i quali si considerano: successi sostanziali nella ricerca di base, e conseguenti cure efficaci, semplici ed economiche legate alle cellule staminali, all’ingegneria genetica e alle nanotecnologie; strumenti diagnostici ancora più efficaci e affidabili; scoperta e produzione di medicine specifiche per anziani e vecchi; attività fisica lungo l’intera vita; maggior cura nella nutrizione e negli stili di vita – e altri fattori che, al contrario, avrebbero effetti negativi – inquinamento dell’aria, dell’acqua, del cibo; comparsa di nuove e inattese epidemie; accresciuta diffusione (soprattutto fra le giovani generazioni) di droghe, doping e obesità; mutamenti climatici su larga scala; insostenibilità del sistema di welfare, legata all’invecchiamento della popolazione e/o a crisi economiche. Il saldo complessivo dei fattori positivi e di quelli negativi è ovviamente imprevedibile, a causa delle incertezze riguardo alla cadenza temporale, all’intensità e all’interazione dei vari fattori. Negli ultimi decenni, soprattutto per i Paesi economicamente più sviluppati, il saldo è stato molto positivo, ma non sono mancate, in alcuni periodi o in alcune aree del mondo, pesanti crisi di mortalità, che hanno penalizzato soprattutto i Paesi in via di sviluppo. Mettendo insieme tutti questi elementi, le Nazioni Unite ipotizzano che nella prima metà del 21° sec. la durata media della vita continuerà a crescere in tutte le aree del mondo, e che la distanza fra durata massima e minima si potrà ridurre dai 33 ai 23 anni, rimanendo, quindi, comunque molto pesante.
Tutto lascia credere che nel prossimo futuro la fecondità continuerà a declinare: quasi tutti i Paesi dove questa permane a livelli medio-alti (cioè sopra il livello di sostituzione, 2,06 figli per donna, che, lo si ricorda, assicura la crescita zero della popolazione) adottano politiche che spingono a una sua ulteriore discesa. Nel 2005-2010, fra i 150 Paesi in via di sviluppo la fecondità rimane molto alta – sopra i 5 figli per donna – solo in 27, che contano per il 9% della popolazione mondiale. Al contrario, la fecondità è scesa al di sotto di 2,06, oltre che in tutti i Paesi economicamente sviluppati, anche in 28 Paesi in via di sviluppo, fra cui la Cina (1,73 figli per donna), che contano per il 25% della popolazione mondiale.
Mentre nei Paesi ad alta fecondità è ormai scontata l’accettazione del principio di favorire una sua discesa e la messa in atto di politiche per attuarla, nei Paesi a bassissima fecondità di lungo periodo, soprattutto in quelli economicamente sviluppati, le tendenze e le politiche mirate a un suo modesto recupero sono molto più complesse, difficili e incerte. Esse comunque vanno pensate e decise alla luce di questi elementi: a) il problema della sostenibilità sul lungo periodo di una fecondità bassissima, pari o inferiore a 1,3 figli per donna, che provoca, a parità di altre condizioni, un intenso declino della popolazione e un suo fortissimo invecchiamento; b) l’alterazione del rapporto fra nascite e morti, che potrebbe arrivare fino a 3-5 morti per 1 nascita (e oltre), e quindi trasformare il concetto stesso di vita e di morte, oltre che gli atteggiamenti e comportamenti nei confronti del bambino, ‘bene’ raro e quindi assai prezioso, e del vecchio, persona dalla presenza ormai assai diffusa e quindi largamente ‘svalutata’; c) il fatto che ridurre un’alta fecondità della donna e della coppia (e quindi dell’intera collettività) corrisponde assai spesso sia all’interesse della coppia stessa sia a quello dell’intero Paese, mentre tentare di rialzare una fecondità bassissima corrisponde certo all’interesse del Paese, ma non necessariamente all’interesse delle coppie e delle donne (e l’esperienza storica dimostra che quando si verifica una coincidenza di interessi tra l’individuo e la collettività nell’abbassare la fecondità, allora le politiche che mirano a diminuirla funzionano; se invece gli interessi nel rialzarla sono contrastanti, normalmente – almeno nelle democrazie occidentali – sono gli interessi degli individui, e quindi i loro comportamenti, a prevalere sugli interessi della collettività); d) l’inesperienza e l’incapacità finora manifestate nel trovare strumenti e politiche per favorire una ripresa, anche modesta, della fecondità.
C’è poi da considerare la straordinaria difficoltà di individuare e di ‘centrare’ gli obiettivi quantitativi di queste politiche, dovuta al fatto che la grande crescita della popolazione che si è avuta nell’ultimo mezzo secolo e la conseguente non minore alterazione nella struttura per età, rendono eccezionalmente complicato e stretto il sentiero lungo il quale camminare per rendere la fecondità futura ‘ottimale’, o anche solo sostenibile. Al riguardo, prendendo come riferimento l’esempio della Cina (dove vive quasi un quarto dell’intera umanità), si trova che, se l’attuale fecondità di 1,70 figli per donna scendesse a 1,35, fra il 2005 e il 2050 si avrebbe una diminuzione di 230 milioni degli individui con meno di 80 anni, il che renderebbe difficilmente fronteggiabile il contemporaneo, forte incremento di ultraottantenni (circa 86 milioni). Né d’altra parte la Cina può permettere che, per meglio gestire l’atteso invecchiamento, la fecondità risalga fino a 2,35 figli per donna, dal momento che questa fecondità porterebbe a un non auspicabile incremento di 245 milioni per la popolazione con meno di 80 anni (che andrebbero a sommarsi all’incremento di 86 milioni di vecchi, con un incremento totale quindi di 331 mi-lioni di persone). Davvero un puzzle di estrema difficoltà per i politici e i cittadini cinesi. Situazioni non meno complesse e difficili si hanno anche per molti altri Paesi, compresa l’Italia.
Al punto in cui è arrivata l’evoluzione demografica, un obiettivo per una fecondità sostenibile potrebbe essere quello di assicurare la crescita zero della popolazione, e quindi il valore di 2,06 figli per donna, o (essendo un obiettivo assai arduo da conseguire con precisione) un valore all’interno di una fascia che va all’incirca da 1,85 a 2,27 figli per donna (cioè il 10% in più o in meno intorno a 2,06). Naturalmente poi, per raggiungere un ottimo dinamico di popolazione – in relazione a fattori ambientali, economici, sociali, culturali – all’interno del Paese dovrebbe essere possibile un’assoluta, libera mobilità della popolazione, altrimenti si dovrebbe cercare di perseguire l’impossibile obiettivo di una crescita zero a tutti i livelli territoriali, il che comporterebbe fra l’altro una straordinaria e insostenibile rigidità della popolazione e della società in senso lato. La tendenza del numero medio di figli per donna nelle varie popolazioni del mondo all’incirca verso il valore 2 è condivisa da molti governi nazionali, oltre che da numerosi studiosi, ed è di conseguenza anche l’obiettivo che compare nelle ultime proiezioni delle Nazioni Unite (tab. 2). Cosicché, mentre al 2000-2005 si osserva uno scarto di 3,7 figli per donna fra il valore massimo di 5,0 raggiunto in Africa e 1,3 registrato in Giappone, per il 2045-2050 si immagina (o forse si auspica) uno scarto ridotto a soli 0,7, come differenza fra il valore massimo di 2,5 per l’Africa e 1,8 per varie parti del mondo. Il che significa, quindi, che tale convergenza implica un’ulteriore riduzione della fecondità laddove è molto alta (e in particolare una riduzione del 50% in Africa) e una difficilissima ripresa laddove è molto bassa (e in particolare un aumento del 46% in Giappone).
Gli squilibri demografici, economici e sociali a livello macro, attuali e prospettivi, non sono mai stati così forti fra il Nord del mondo, economicamente progredito e demograficamente depresso, e il Sud, demograficamente vitale ed economicamente depresso, per cui ci si potrebbero aspettare migrazioni assai massicce. Ma poi a livello micro, per prendere la decisione di partire conta il bilancio che una singola persona e la sua famiglia fanno fra la situazione attuale (o quella sperata) nel luogo di origine e la situazione sperata nel luogo di destinazione, compresi tutti i costi da affrontare per arrivarci. Per tentare di valutare il futuro delle migrazioni internazionali, bisogna tener conto del fatto che entrano in gioco numerosi attori e non soltanto i due più importanti, i quali per l’appunto sono da un lato il migrante – che vuole avere il diritto di lasciare il proprio Paese, per necessità e/o desiderio – e dall’altro il Paese di destinazione – che vuole avere il diritto di lasciare entrare soltanto un certo numero di immigrati, per salvaguardare una propria armoniosa capacità di sviluppo economico e sociale, oltre che la propria identità etnico-culturale. Vanno infatti prese in considerazione anche le politiche e le azioni operative svolte da altri attori, quali i Paesi di transito, che non riescono e/o non vogliono trattenere gli irregolari sul proprio territorio, adoperato sempre più spesso come trampolino per tentare di arrivare nell’‘eldorado’ (si considerino, per es., il caso Messico-Stati Uniti e quello Libia-Italia), e i trafficanti di manodopera, che sullo stato di bisogno dei migranti lucrano ignobilmente.
Nella partita delle migrazioni internazionali, però, da sempre sono in gioco anche: a) il Paese d’origine del migrante, che può volere allentare la pressione sul proprio mercato del lavoro e acquisire fondamentali rimesse finanziarie; b) la famiglia di origine del migrante, che sotto il profilo psicologico e affettivo, ma in primo luogo sotto quello delle risorse finanziarie, può comportare o no la spinta a partire; c) la comunità di connazionali già insediata nel Paese di destinazione, che, formando la ben nota ‘catena migratoria’, è spesso elemento determinante per prendere la decisione di partire; d) i datori di lavoro nei Paesi di arrivo, che, nel caso ci sia carenza, per quantità e/o qualità, di manodopera sul mercato interno, causano l’afflusso di immigrati, anche irregolari; e) gli altri Paesi di immigrazione, specie se contigui, le cui politiche migratorie hanno un’influenza indiretta su un singolo Paese, nel senso che le loro aperture o chiusure rispetto ai flussi di immigrazione – anche soltanto mediante i visti – possono modificare intensità, cadenza e direzione dei flussi verso quel singolo Paese.
Come elementi strumentali, che interagiscono intensamente con molti dei soggetti, vanno considerati sia le facili ed economiche comunicazioni telefoniche e informatiche, che consentono a chi è già immigrato di comunicare e avvertire in tempo reale le comunità rimaste a casa delle opportunità e degli ostacoli esistenti nel Paese di origine e del modo di sfruttarle e superarle, sia, ancor di più, l’enorme quantità di mezzi di trasporto che con grande frequenza, rapidità ed economicità collegano ogni Paese con tutto il resto del mondo. In particolare poi nell’Unione Europea, va considerato il Trattato di Schengen (dal 21 dicembre 2007 allargato a 25 Paesi), che, annullando le frontiere dei singoli Stati-nazione e spostandole ai bordi di un’enorme area di libera circolazione delle persone, fa sì che la politica migratoria dei singoli Paesi europei si stia trasformando sempre di più da unidimensionale e bilaterale a multidimensionale e multilaterale. Il massimo contributo (relativo e assoluto) delle migrazioni internazionali in relazione all’incremento naturale di alcuni Paesi si prevede si avrà nel quinquennio 2005-2010, quando le migrazioni nette tenderanno a più che raddoppiare il contributo dell’incremento naturale (nascite meno morti) alla crescita della popolazione. In sostanza si può affermare che mentre l’immigrazione può risolvere la crisi demografica dei Paesi a bassissima fecondità e a forte economia, con particolare riferimento a quelli europei, la parallela emigrazione, per quanto consistente, non può risolvere l’eccesso di crescita demografica dei Paesi a economie deboli, né può risolvere le miserie del mondo, dal momento che l’uno e le altre sono relative a miliardi di persone.
Di fronte a cifre così imponenti per i flussi migratori, e che certo non potranno diminuire in futuro, in sede internazionale ci si è posto il problema di trovare formule che massimizzino i vantaggi e minimizzino gli svantaggi per i tre protagonisti principali del processo migratorio: i Paesi di destinazione, i Paesi di origine e i migranti. Per meglio valutare il problema vanno analizzate le politiche migratorie dei vari Paesi, compresi quelli di transito, i cui obiettivi principali sono di seguito indicati.
Per i Paesi di destinazione: a) sostenere o promuovere, attraverso l’immigrazione, un forte sviluppo economico, possibilmente anche nei Paesi di origine e in quelli di transito; b) favorire l’incontro fra domanda e offerta di lavoro, o alleggerire gli squilibri quantitativi e/o qualitativi esistenti nel mercato del lavoro; c) favorire la modernizzazione e lo sviluppo (o la ripresa) di uno specifico settore della produzione e dell’intera economia; d) favorire la ripresa dello sviluppo demografico, soprattutto nei Paesi caratterizzati da un forte e prolungato eccesso di bassa fecondità; e) favorire il pacifico inserimento della comunità immigrata nel Paese di destinazione, garantendole una fruttuosa convivenza e la possibilità di promozione sociale e professionale, in specie per le seconde generazioni; f) avere un flusso e uno stock di migranti di intensità ‘sostenibile’ rispetto alla capacità di accoglienza della società e di una sua positiva interazione con la comunità immigrata, basata anche sulla salvaguardia della identità dei popoli e dei luoghi di accoglienza (specie in società e città storicamente stratificate com’è in Europa).
Per i Paesi di origine: a) sostenere e promuovere, attraverso l’emigrazione, un consistente sviluppo economico, riducendo nel mercato del lavoro la fortissima offerta, che sia di origine demografica o socioeconomica; b) offrire ai propri cittadini, e alle loro famiglie, un’opportunità di sopravvivenza e di promozione sociale; c) acquisire rimesse finanziarie essenziali per la bilancia dei pagamenti e per gli investimenti produttivi, e poi acquisire anche, specie nel lungo termine, rimesse sociali; d) favorire in generale lo sviluppo e la modernizzazione della società e dell’economia; e) non subire un eccessivo dispendio di capitale umano, onerosamente formato e necessario per lo sviluppo; f) stringere con i Paesi di destinazione relazioni economiche e socioculturali, con lo scopo anche di favorire le proprie esportazioni e acquisire investimenti diretti stranieri.
Per i Paesi di transito: a) agevolare un rapido e indolore smaltimento dei migranti di transito che via via si accumulano nel proprio territorio; b) annullare o ridurre la tensione politico-diplomatica che si viene a creare tanto con i Paesi di origine dei migranti di transito, quanto con quelli di destinazione.
Per il migrante (in linea di massima): a) favorire il pieno inserimento suo e della sua famiglia nel Paese di destinazione, una volta che si vogliano e si riescano a superare gli ostacoli legati al lavoro, all’abitazione, alla lingua, alla scuola dei figli, alla pacifica e fruttuosa convivenza con la comunità autoctona; o, alternativamente, b) restare un periodo più o meno limitato di tempo nel Paese di destinazione per mettere da parte una somma che consenta poi una piena sopravvivenza nel Paese di origine, anche attraverso l’inizio di una propria attività.
Nei primi anni di questo secolo hanno preso avvio alle Nazioni Unite un’approfondita analisi e un’iniziativa politica che mirano a valorizzare le migrazioni temporanee e rotatorie, in modo da poter minimizzare gli inconvenienti delle migrazioni permanenti o di lungo periodo. Infatti: a) per il Paese di destinazione, diminuiscono i problemi dell’integrazione – economica, logistica, psicologico-culturale – soprattutto quando le esigenze dell’economia richiedono per molti anni o decenni flussi di immigrazione così intensi da mettere in difficoltà la capacità d’integrazione, o quando vi siano fluttuazioni del ciclo economico che richiedono un numero variabile di migranti; b) per il Paese di origine, diminuisce la perdita di capitale umano, si prolunga nel tempo l’acquisizione delle rimesse finanziarie (contribuendo in misura spesso decisiva allo sviluppo del Paese), si ottiene al rientro il guadagno di capitale sociale costituito dalle caratteristiche sociali e professionali acquisite all’estero dal migrante; c) per il Paese di transito, si annulla o si allenta decisamente la pressione sul proprio territorio, essendo molto maggiore il numero di coloro che possono regolarmente emigrare nel Paese desiderato.
A pagare il prezzo maggiore di questo tipo di migrazione è spesso il migrante, con la separazione dalla famiglia durante il periodo di migrazione e con l’obbligo di far rientro nel luogo di origine, non sempre abbastanza attraente per lui e/o per il futuro dei suoi figli. E pur tuttavia questo tipo di migrazione, per il quale si possono immaginare strumenti e meccanismi adeguati per ridurre al minimo i danni del migrante, sembra essere una delle poche forme in grado di assicurare la circolazione di una grande quantità di migranti e una riduzione degli inconvenienti legati a una migrazione massiccia e crescente.
Se ci si è soffermati così a lungo sulle migrazioni è perché si ritiene che per i decenni a venire esse saranno sempre più importanti nel determinare le tendenze della popolazione. Al di là infatti delle considerazioni sulla pressione migratoria, che saranno svolte nel paragrafo successivo, le migrazioni restano l’elemento più flessibile per regolare lo sviluppo della popolazione in relazione allo sviluppo economico. La mortalità, infatti, è ormai straordinariamente ridotta e unidirezionale (nel senso che tutto viene fatto perché si abbassi ulteriormente), mentre la fecondità non è unidirezionale, ma è sempre più difficile da regolare per indirizzarla su un percorso che, come si è visto, è comunque molto stretto.
La popolazione mondiale presenterà una crescita fortissima anche nella prima metà del 21° sec.: ci si aspetta (nell’ipotesi ‘centrale’, cioè di fecondità media) un incremento di circa 2,5 miliardi di persone nei 43 anni che vanno dal 2007 al 2050, e quindi in media 59 milioni in più all’anno (tab. 4). Il gioco delle variabili demografiche fa sì che la popolazione mondiale, stimata al 1° luglio 2007 in quasi 6,7 miliardi di persone (dei quali 5,4 vivono nei Paesi in via di sviluppo e 1,2 in quelli economicamente sviluppati), possa arrivare nel 2050 a 9,2 miliardi (dei quali rispettivamente 8,0 e 1,2). E questo come effetto della prevista discesa della fecondità (da 2,55 a 2,02 figli per donna), dell’allungamento della vita media (da 67,2 a 75,4 anni), delle migrazioni internazionali (2,9-2,3 milioni all’anno dal Sud al Nord) e delle caratteristiche della struttura per età (che ha accumulato nei decenni passati un forte potenziale di crescita).
Le differenze territoriali nello sviluppo delle popolazioni saranno straordinarie per effetto della diversa velocità, intensità e cadenza delle variabili demografiche in gioco (Angeli, Salvini 2007).
Differenze straordinarie si potranno registrare anche in relazione ai percorsi di fecondità seguiti dalle diverse aree territoriali. Si prenda il caso del possibile sviluppo della popolazione dell’Africa in confronto a quello dell’Europa (tab. 4): se il percorso della fecondità fosse per entrambi i continenti quello medio, allora la loro differenza di popolazione, che attualmente è di 234 milioni, salirebbe nel 2050 a 1334 milioni; con una fecondità bassa per l’Africa e alta per l’Europa (percorsi con ridotta probabilità di verificarsi), allora la differenza salirebbe a 941 milioni; con una fecondità alta per l’Africa e bassa per l’Europa (percorsi che hanno ridotta probabilità di verificarsi, ma comunque maggiore di quella del caso precedente), allora la differenza salirebbe a 1736 milioni.
Ci si può aspettare circa 1 miliardo di differenza fra popolazione africana ed europea, a fronte dei 234 milioni attuali. Con 3 africani per ogni europeo, necessariamente cambierà tutta la geopolitica dell’area euroafricana. La recentissima Unione per il Mediterraneo, che mette insieme i 27 Paesi dell’Unione Europea e i Paesi rivieraschi del Sud del Mediterraneo (Libia esclusa), dal punto di vista demografico non può che essere valutata positivamente, soprattutto come premessa di una più larga Unione che in futuro includa anche i Paesi dell’Africa subsahariana. È destinata a cambiare, per fare un altro esempio, la geopolitica in un’area particolarmente delicata anche dal punto di vista delle tensioni militari: nel 1950 la Russia (considerata nei confini attuali) aveva una popolazione (103 milioni) che era circa tre volte quella del Pakistan (37 milioni); nel 2050 il Pakistan potrebbe avere una popolazione pari a tre volte quella della Russia (292 contro 108).
Nell’ambito dei Paesi in via di sviluppo, la crescita demografica sta avendo e avrà un impatto molto forte in primo luogo sulla domanda di acqua, cibo ed energia, in particolare da parte dei 4,6 miliardi di persone che abitano nei Paesi emergenti, e che ci si aspetta diventino 6,2 miliardi nel 2050. Si tratta di Paesi con vaste popolazioni e con una assai forte crescita economica – a partire da Cina e India – in cui la formazione di una classe media fa aumentare la domanda di beni che siano al di là della pura sopravvivenza. Da qui la richiesta di cibo, ma poi anche di abitazioni più confortevoli, di automobili, e quindi di energia e di acciaio. Una domanda sostenuta dalla spinta a superare l’arretratezza di questi Paesi – in campi fondamentali come il tenore di vita, oltre alla soluzione di problemi come la povertà, la salute e l’istruzione – e che va mettendo in crisi il sistema di produzione, scambi e prezzi di merci e servizi delle società occidentali; domanda che per di più si accentuerà in futuro, proprio in relazione al fortissimo aumento della popolazione e alla sua attesa e auspicabile crescita in termini socioeconomici.
Al di là dei grandi mutamenti nella geopolitica e nelle relazioni internazionali e agli imponenti cambiamenti legati alla domanda dei beni e servizi per effetto della crescita demografica e di quella economica, immense sfide vengono poste ai singoli Paesi e alla comunità internazionale dalle ‘sconvolgenti’ variazioni nella struttura per età delle popolazioni legate al calo della fecondità e della mortalità (tab. 5) e alle forme di insediamento della popolazione sul territorio.
Si prevede che tra il 2005 e il 2050 cali nel mondo intero di 15 milioni, in conseguenza della già consistente discesa della fecondità e di quella dei prossimi decenni. Ci si aspetta che cali di poco nei Paesi economicamente sviluppati, dove già costituisce una frazione molto ridotta della popolazione, e molto nei Paesi emergenti (di 176 milioni, il 13,3% in meno), dove il problema maggiore sarà, una volta assicurato a tutti i minori un adeguato livello di istruzione, quello di far diminuire in parallelo e dolcemente tutto il settore relativo all’istruzione, che altrimenti si troverebbe a essere sovradimensionato. Nei Paesi a sviluppo minimo, l’incremento invece sarà massiccio – di 173 milioni, il 54% in più – e la sfida sarà quella di riuscire a far crescere adeguatamente il settore dell’istruzione, considerando anche la sua grande arretratezza in molti di questi Paesi.
Ma per questo segmento di popolazione, riguardo i Paesi a sviluppo minimo due ulteriori sfide aspettano i governi e la comunità internazionale: a) assicurare un forte incremento delle condizioni di salute, dal momento che in alcuni Paesi, per es. in Mali o in Etiopia, la mortalità infantile supera ancora il valore di 100 bambini morti nel primo anno di vita per ogni 1000 nati vivi; b) salvaguardare i bambini dal lavoro e proteggere i minori nel lavoro, dal momento che è difficile immaginare che si possa ridurre o annullare il lavoro minorile, tenendo conto che quasi la metà della popolazione (il 42%) ha meno di 15 anni (una proporzione che tenderà a ridursi, ma lentamente, per arrivare al 28,2% nel 2050).
Si prevede che fra il 2005 e il 2050 la popolazione in età lavorativa aumenterà nel mondo intero di 1,677 miliardi, con fortissime differenze territoriali: −92 milioni nei Paesi economicamente sviluppati; +708 nei Paesi a sviluppo minimo; +1067 nei Paesi emergenti. Il che comporta (tenendo conto del fatto che in questa fascia di età il tasso normale di attività si aggira intorno al 70%) la necessità di creare nei Paesi in via di sviluppo circa 1,250 miliardi di nuovi posti di lavoro, per fronteggiare l’offerta che deriva dalla sola dinamica demografica. L’immensità della sfida si può valutare tenendo conto che l’intero ricco Nord del mondo occupa attualmente 550-600 milioni di persone. Ma alla componente demografica bisogna aggiungere un’offerta addizionale di lavoro che deriva: dall’espulsione di addetti all’agricoltura, quando questa, com’è in specie nei Paesi a sviluppo minimo, è arretrata e ammodernandosi espelle decine di milioni di lavoratori; dal miglioramento della condizione femminile, che immette sul mercato grandi quantità di lavoratrici, non infrequentemente più istruite degli uomini; dall’aumento dell’istruzione, che contribuisce a immettere sul mercato del lavoro frazioni di persone che altrimenti resterebbero emarginate o scoraggiate. Si tratta, per di più, di creare posti di lavori che siano, secondo la definizione dell’International labour organization (ILO), ‘decenti’, in grado quindi di assicurare un reddito adeguato.
Dall’altra parte, i Paesi economicamente sviluppati, per la prevista diminuzione della popolazione in età lavorativa, avranno bisogno di immigrati, che, si è visto, le Nazioni Unite prevedono nella misura di 2-3 milioni l’anno. La pressione migratoria Sud-Nord sarà quindi fortissima e incontenibile, ma, come si diceva, mentre le migrazioni sarebbero in grado di risolvere i problemi demografici del Nord del mondo (compreso quello di ridurre in misura modesta l’invecchiamento, sempre che i flussi di immigrazione abbiano continuità nel tempo), non saranno certo in grado di risolvere i problemi demografici ed economici che interessano invece il Sud.
La possibilità e la capacità di creare abbastanza lavoro, e lavoro decente, per fronteggiare un’offerta che nei prossimi decenni supererà largamente 1,5 miliardi di persone, costituisce una delle sfide principali per l’umanità prossima ventura, sfida verso la quale però si presta molta meno attenzione rispetto a quelle relative a problemi, peraltro non meno rilevanti, come il cibo, l’energia, l’inquinamento.
Questo segmento di popolazione costituisce l’altra ‘bomba demografica’ del 21° secolo. Ci si aspetta nel mondo un incremento di 1,013 miliardi di ultrasessantacinquenni fra il 2005 e il 2050, di cui 139 milioni nel mondo economicamente sviluppato (dove raggiungeranno la quota del 26,1% sul totale della popolazione) e 877 nei Paesi in via di sviluppo, dove, con un incremento di oltre il 300%, raggiungeranno la quota del 14,7%. I Paesi del Nord del mondo si ritroveranno con una quota elevatissima di anziani e vecchi, che metterà a dura prova la sicurezza sociale, il sistema pensionistico e la loro competitività internazionale. I Paesi del Sud si ritroveranno con una quota minore, ma in vertiginosa crescita; e questo in Paesi dove i sistemi di sicurezza sociale e pensionistici sono ancora approssimativi se non del tutto assenti, i redditi ancora bassi e la crisi della famiglia già largamente presente.
Le sfide di cui si è detto nel paragrafo precedente saranno particolarmente forti per i Paesi a più intenso e rapido invecchiamento della popolazione, per i Paesi quindi con prolungata bassissima fecondità e con recente intensissima immigrazione, elementi che alterano profondamente tendenze e livelli dello sviluppo della popolazione, della sua struttura per età e del suo insediamento sul territorio.
Proiezioni demografiche elaborate nel 2008 dall’Istituto nazionale di statistica (ISTAT) mostrano chiaramente come rilevantissimi siano i mutamenti che ci si possono ragionevolmente attendere nello sviluppo della popolazione italiana (tab. 6). Prendendo come base la proiezione cosiddetta centrale (che allo stato sembra avere la maggiore probabilità di verificarsi), nel giro di 44 anni, dal 2007 al 2051, i mutamenti potrebbero essere quelli esposti di seguito.
La popolazione italiana continuerà, sia pure debolmente, a crescere, ma grazie al solo effetto dell’immigrazione straniera. Infatti, l’intera popolazione residente sul territorio crescerà di 2,5 milioni, da 59,1 a 61,6 milioni, con la popolazione di origine italiana che scenderà da 56,2 a 50,9 milioni, e quella di origine straniera che salirà da 2,9 a 10,7 milioni. Delle persone che risiedono nel Paese, nel 2007 è straniera circa 1 su 20; nel 2051 invece sarà 1 su 6. Una vera e propria rivoluzione, che richiede politiche rivolte agli stranieri molto più attive delle attuali in tema di integrazione, con particolare riferimento al lavoro, alla casa, alla salute, alla scuola e alla mobilità sociale, elementi essenziali per una corretta e appropriata crescita delle seconde generazioni di immigrati e quindi per una duratura e proficua pace sociale. In una parola, l’immigrazione straniera diventa elemento strutturale e centrale della popolazione italiana e non più elemento marginale e marginalizzato, com’è stato considerato e collocato finora.
Verrà scompaginata la distribuzione della popolazione italiana sul territorio, come conseguenza del fatto che l’immigrazione straniera si stabilirà molto di più nelle più ricche regioni del Centro-Nord che non in quelle meno floride del Mezzogiorno, da dove, per di più, ripartiranno consistenti migrazioni interne. La conseguenza è che la popolazione del Mezzogiorno scenderà da 20,8 milioni nel 2007 a 18,1 nel 2051. Quella del Centro-Nord salirà invece da 38,4 a 43,5 milioni (senza immigrazione scenderebbe da 35,8 a 33,6 milioni), cioè dal 65 al 71% del totale dell’Italia.
L’invecchiamento della popolazione italiana proseguirà intensissimo, appena lievemente intaccato dall’apporto positivo dell’immigrazione: saliranno al 33% gli ultrasessantacinquenni (contro l’attuale 19,9), e scenderanno al 12,8% le persone con meno di 15 anni (contro l’attuale 14,1). Ma l’aspetto più sconvolgente dal punto di vista demografico e socioeconomico è dato dalla circostanza che il Centro-Nord, la ripartizione italiana attualmente più vecchia, diventerà la più giovane, e il contrario succederà per il Mezzogiorno.
Queste tendenze demografiche pongono grandi sfide all’attuazione di un pieno federalismo fiscale: ci si aspetta che le regioni attualmente ricche del Centro-Nord siano caratterizzate da una crescita della popolazione totale del 10-20%, mentre le regioni meridionali da una diminuzione del 12-14%; le prime, finora le più vecchie d’Italia, diverrebbero, come detto, le meno vecchie, e viceversa per le regioni meridionali; la popolazione in età lavorativa diminuirebbe, nonostante l’immigrazione straniera, di circa 1,1 milioni di persone nel Centro-Nord e di 4,5 nel Mezzogiorno. Il prodotto interno lordo di un determinato territorio, cioè la ricchezza prodotta, non è soltanto il frutto del sistema economico e della sua struttura e organizzazione, ma anche della quantità di persone che sono sul mercato del lavoro – il capitale umano, dal punto di vista quantitativo e qualitativo – e più in generale degli abitanti che in quel territorio consumano beni e servizi. Ebbene, al di là delle capacità degli amministratori locali, con le tendenze in atto si alimenterebbe nelle regioni del Centro-Nord un circolo virtuoso fra economia e demografia, e invece uno vizioso in quelle del Mezzogiorno.
Le straordinarie modificazioni demografiche, e alcune altre a esse strettamente legate, della popolazione mondiale nella prima metà del 21° sec. possono essere così sintetizzate (Trends and problems of the world population in the XXI century, 2005, in partic. J. Chamie, Scenarious for the development of world population, pp. 69-90): una popolazione mondiale ancora crescente e quindi molto più numerosa; una sua assai maggiore concentrazione nei Paesi in via di sviluppo; un suo declino in molti Paesi sviluppati (mitigato in alcuni casi da consistenti flussi di immigrazione); una fecondità in discesa e, in un numero crescente di casi, durevolmente bassa; una mortalità in discesa anche nelle età molto avanzate, con conseguente aumento e diffusione della ‘grande longevità’; un fortissimo aumento della popolazione in età lavorativa nei Paesi economicamente meno progrediti; popolazioni assai più vecchie (in particolare, ma non solo, nei Paesi sviluppati), con drastico aumento di anziani e vecchi e drastica riduzione di bambini e ragazzi; più frequente e prolungata coesistenza di 3-4 generazioni nelle famiglie e nelle popolazioni; profonde alterazioni (demografiche, economiche, sociali, culturali, psicologiche) derivanti, fra l’altro, dagli squilibri numerici nei rapporti fra le generazioni, in particolare fra nonni e nipoti; una popolazione assai più urbanizzata, accentrata in smisurate megalopoli (soprattutto nel Sud del mondo) o in nebulose urbane diffuse su territori assai vasti (soprattutto nel Nord); incremento delle migrazioni internazionali e assai forte aumento delle diversità etniche nelle popolazioni di arrivo; continui e consistenti progressi delle donne nelle pari opportunità e nell’equità; mutamenti nella composizione e nella struttura della famiglia, che peraltro diventa sempre più fragile e vulnerabile.
Se si guardano le possibili conseguenze attuali e prospettive della rivoluzione demografica in atto e di quella prossima ventura, si possono ritrovare da un lato effetti negativi, peraltro già evocati, derivanti da: carenza di lavoro ‘decente’ e diffusione di larghe sacche di povertà; crisi economiche e/o di welfare; contrapposizioni fra popoli sino all’eventuale insorgenza di guerre, regionali o meno; carenza di acqua e/o di energia, e forse di cibo; diffusione di vecchie e nuove malattie infettive; disastri ambientali.
Ma, dall’altro lato, si possono ritrovare effetti positivi, alcuni dei quali già ricordati nelle pagine precedenti: presa di coscienza del destino comune, con concreto e fruttuoso approccio ai problemi dell’umanità; importanti innovazioni scientifiche e tecnologiche (fra cui, per es., farmaci personalizzati per allungare la vita e migliorarne la qualità, anche attraverso l’utilizzo di robot umanoidi e non); stazionarietà o declino della popolazione mondiale, a partire dalla metà del 21° sec., o forse anche un po’ prima.
Tirando le somme, sono immense le sfide legate alle tendenze demografiche. Nei Paesi economicamente sviluppati va ricercata la capacità di far sopravvivere il sistema produttivo, reggendo all’impatto del proprio ciclo demografico, visto anche in combinazione con quello dei Paesi in via di sviluppo, tenere vivo il sistema di sicurezza sociale, di fronte all’intensissimo invecchiamento della popolazione, e trovare un diverso sistema di assistenza e cura, poiché non sembra più sostenibile in futuro quello basato sulla famiglia, per motivi di alterazione del rapporto fra le generazioni, di modificazioni del quadro nosologico, di durata del periodo di assistenza, della sempre più frequente rottura e ricomposizione delle famiglie, della frequente inadeguatezza, per i grandi vecchi, delle abitazioni nelle quali sono vissuti.
Nei Paesi in via di sviluppo va ricercata la capacità di mantenere e anzi migliorare il sistema produttivo, riuscendo a creare in circa quarant’anni oltre un miliardo di posti di lavoro decente (cioè retribuiti con più di due dollari al giorno), e reggendo quindi all’impatto demografico e ai problemi di competitività che si creeranno fra gli stessi Paesi in via di sviluppo e fra questi e il mondo economicamente sviluppato. Occorre inoltre far nascere dovunque un sistema generalizzato di sicurezza sociale per poter affrontare la straordinaria velocità di invecchiamento delle popolazioni e le difficoltà di crescita economica.
Ma se proprio si volesse sintetizzare al massimo il complesso di queste grandi e difficili stime, si può far riferimento a quattro sole cifre che riguardano la demografia di un futuro compreso fra il 2007 e il 2050 (v. tab. 4). L’incremento atteso della popolazione complessiva – pari a +22 milioni nel Nord del mondo (compresa un’immigrazione di 2-3 milioni di persone l’anno) e a +2498 milioni nel Sud (compresa un’emigrazione di 2-3 milioni di persone l’anno) – è tale da far comprendere che nulla potrà rimanere com’è adesso nei rapporti fra i popoli. E ancora (v. tab. 5): la variazione attesa della popolazione in età lavorativa fra i 15 e i 64 anni (sempre includendo i movimenti migratori), pari a −92 milioni nel Nord del mondo e a +1767 milioni nel Sud, lascia intendere, anche in questo caso, che nulla potrà rimanere com’è adesso nella struttura dei sistemi produttivi e dei flussi migratori. Bastano queste sole quattro cifre a dare la misura della necessità e dell’urgenza di una nuova visione e di un nuovo governo del mondo.
Le sfide appena enunciate portano per l’appunto a porsi la domanda forse più importante, cioè quale governance si possa e si debba avere, ai vari livelli territoriali, per gestire un futuro così complesso e dinamico. Domanda di grande difficoltà, cui uno studioso dei problemi della popolazione può tentare di dare una risposta partendo in primo luogo dalla necessità di definizione e attuazione di politiche demografiche, che sono incerte e di lunghissimo periodo e quindi quasi sempre non attuabili da governi che durano pochi anni, e in secondo luogo dalle straordinarie differenze territoriali nella crescita demografica, che dovrebbero portare a pressioni migratorie enormi e incontenibili e a mutamenti profondi nelle relazioni fra i popoli.
Guardando alle esperienze passate si può immaginare una strategia di governance articolata su più livelli temporali, di breve, medio e lungo periodo. Un primo livello di breve periodo potrebbe essere quello di riprendere la pratica delle grandi conferenze intergovernative-multilaterali delle Nazioni Unite, una volta che l’organizzazione riacquisti maggiore efficienza e la consapevolezza dell’importanza del suo ruolo. Conferenze certo costose – anche difficili e complesse, per la sempre più radicale contrapposizione fra Paesi ricchi, poco disposti a cedere sulle proprie posizioni di privilegio, Paesi emergenti, che vogliono tentare di raggiungere gli standard di vita dei Paesi ricchi, e Paesi poveri, che inutilmente o quasi tentano di uscire dalla propria condizione di povertà – ma in ogni caso molto utili, sia perché ‘costringono’ i governi a gettare lo sguardo ai problemi di lungo periodo spesso ignorati o trascurati (nel campo della popolazione, ma anche in quello dell’energia e dell’ambiente), sia perché forniscono alle opposizioni e alle opinioni pubbliche dei vari Paesi strumenti di stimolo e di controllo sull’operato dei governi.
Un secondo livello temporale, che può correre in parallelo con il primo, potrebbe consistere nel favorire la creazione e/o il potenziamento di unioni o confederazioni di Stati, possibilmente a dimensione regionale. Si potrebbero, per es., prendere in considerazione delimitazioni territoriali quali sono quelle delle organizzazioni regionali delle Nazioni Unite, e ciò al fine di creare raggruppamenti di popoli che, basandosi su una grande dimensione sia territoriale, sia economica e demografica, siano in grado di non soccombere, nel processo di globalizzazione e nella sua gestione, ai colossi nazionali (attualmente Stati Uniti, Russia, Cina, India) e alle multinazionali giganti che adesso la governano. La costituzione di tali unioni politiche regionali incoraggerebbe al loro interno lo sviluppo economico e sociale di tutte le aree attraverso un’azione politica coordinata e la libera circolazione dei capitali, delle merci e delle persone. La libera circolazione delle persone sarebbe assai positiva in presenza delle pressioni migratorie attuali e di quelle immense che ci si aspetta; e nel contempo la libera circolazione dei capitali potrebbe frenare, in mancanza di un forte principio di solidarietà internazionale, la spinta di alcuni Stati deboli a nazionalizzare i profitti e/o gli investimenti di società e di Stati forti, attuati soprattutto attraverso fondi sovrani.
Sulla strada di costituire unioni politiche a dimensione regionale si ritrovano al momento segnali contrastanti, ma globalmente deboli e non sempre incoraggianti. In America Latina si sta tentando di superare una crisi non irrilevante del MERCOSUR (Mercado Común del Sur), che deriva dall’essere troppo diversi i modelli di sviluppo e di governo dei singoli Paesi; nell’America Settentrionale e Centrale, il NAFTA (North American Free Trade Agreement) è in forte crisi, sia perché non ha favorito abbastanza gli investimenti in Messico, sia perché non ha bloccato l’‘eccesso’ di emigrazione dal Messico; nell’Unione Europea si hanno solo timidi e incerti segnali di ripresa, fra cui positivi sono quelli di una volontà (si spera generalizzata) di collaborazione con il Sud del Mediterraneo; nell’ASEAN (Association of South East-Asian Nations) si segnala una forte crescita degli elementi di collaborazione necessari per fronteggiare Cina e India; nell’Unione africana (UA) la crescita è assai modesta.
Può darsi che una spinta convinta e sicura alla costituzione politica di unioni regionali, anche più vaste di quelle attualmente in costruzione, venga da una lucida, progressiva considerazione e presa d’atto di alcune paure, quali possono essere quelle dell’invasione migratoria, del collasso ecologico, della crisi energetica, della crisi alimentare, di crisi politico-militari regionali; di soccombere, nell’arena della globalizzazione, di fronte alle grandi potenze nazionali e multinazionali, di altre possibili e devastanti forze, anche di natura epidemiologica.
Le tendenze economiche, demografiche, sociali e culturali in atto – che si manifestano nell’aumento degli scambi commerciali, dei flussi finanziari, dei flussi migratori e delle comunicazioni, a partire dalla televisione e poi, anche più pervasivamente, da Internet e dai nuovi cellulari – alimentano un continuo incrociarsi e mescolarsi di culture e religioni, oltre che di popoli, di atteggiamenti e di comportamenti, e cancellano quindi o attenuano, magari con scontri, frontiere millenarie. Per contrastare positivamente la globalizzazione, questa dell’enorme dilatazione e della fortissima riduzione del numero delle entità politico-territoriali sembra essere una delle poche vie di uscita per ‘assorbire’ pressioni demografiche incontenibili e devastanti, perché relative a miliardi di persone, per rimanere appieno dentro l’economia globale e più in generale per stabilire, proprio grazie a queste tendenze, nuove relazioni internazionali al fine di ridurre le iniquità e le grandi disuguaglianze esistenti nel mondo e assicurare un futuro di pace, o forse solo limitare i rischi di tensioni e guerre.
È oggi, o quasi, che per i macrofenomeni si decide che cosa sarà il mondo del 2050, e si prepara quello che sarà nel 2100. È più che mai necessario tentare di prevedere alcuni possibili percorsi delle basilari variabili che influenzeranno i prossimi decenni, analizzare le leggi che regolano tali percorsi e valutarne auspicabilità e compatibilità.
La prima variabile è costituita dalla grande crescita demografica, che permane e che entro il 2050 porterebbe la Terra a popolarsi di ulteriori 2,5 miliardi di persone, con straordinarie differenze territoriali. Il peso demografico dei Paesi al presente ricchi potrebbe scendere dall’attuale 18,3 al futuro 13,5%, i Paesi emergenti scenderebbero dal 69,6 al 67,5% (corrispondente in cifra assoluta a oltre 1,5 miliardi di persone), e infine la quota dei Paesi poveri salirebbe dal 12,1 al 19,0% (in cifra assoluta circa 1 miliardo). Ma tale crescita demografica si attua anche con il fortissimo aumento della popolazione urbana, che fra il 2005 e il 2030, secondo le proiezioni dell’ONU, dovrebbe crescere di 1,763 miliardi (da 3,150 a 4,913) – di cui 113 milioni nei Paesi sviluppati, 1,327 miliardi nei Paesi emergenti e 321 milioni nei Paesi più poveri – mentre la popolazione rurale dovrebbe scendere da 3,314 a 3,287 miliardi. Una trasformazione demografica-economica-ambientale davvero immensa e straordinaria.
La seconda è la futura, limitata disponibilità, se non vera e propria scarsità, di alcune risorse, a partire dall’acqua e a seguire forse con cibo ed energia. Ma anche, con ogni probabilità, con la scarsità della ‘risorsa tempo’, considerando che l’accelerata trasformazione della popolazione, dell’economia, della società e della tecnologia non concede abbastanza tempo alla politica per ricercare le soluzioni tecnico-politiche e il consenso per attuarle e recuperare lo svantaggio accumulato.
La terza variabile è la tecnologia, i cui progressi e le cui innovazioni, impressionanti per intensità, persistenza e rapidità, creano discontinuità temporali e territoriali, contribuendo con ciò ad aumentare la distanza fra ricchi, dotati di capitali finanziari e umani per sfruttare appieno i progressi, e poveri, affannati in una difficile e debole rincorsa.
In quarto luogo c’è la variabile ambiente, nei cui percorsi vanno accuratamente esaminati i legami fra popolazione e mutamenti climatici a varia scala – globale, regionale, nazionale, locale, delle singole famiglie.
In quinto luogo, variabile fondamentale che lega tutto, e di cui si è detto prima, è la forma di governo, a livello globale e regionale, alla ricerca di nuovi efficienti equilibri fra capacità di governo ed equità e fra democrazia e mercato, equilibri che valgano anche per il livello attualmente nazionale, cioè per una singola collettività e per i singoli individui.
Messo nei termini più essenziali possibili, il problema è se la prosecuzione dello sviluppo economico possa essere sostenibile o no. Se sia peggio la sovrappopolazione o l’eccesso di consumi. Nel caso in cui la risposta al problema fosse la prima, si potrebbe avere una grande tragedia per l’umanità, perché si tratterebbe di estendere a tutti i popoli che si trovano ancora a medio-alta fecondità una politica che li costringa – come, per es., da tempo succede in Cina – a non avere figli o ad averne uno solo, di modo che la fecondità scenda ancora più rapidamente di quanto stia avvenendo; oppure si tratterebbe di avere un arresto alla discesa della mortalità, e magari di rialzarla riducendo per tutti la durata della vita nelle età più avanzate. Parrebbe più conveniente e appropriato ridurre i consumi, impresa straordinariamente difficile e complessa, ma comunque di medio periodo, in attesa che dopo la metà del 21° sec. la popolazione mondiale cominci – com’è del tutto probabile – a declinare grazie all’azione di sue forze endogene. Un declino peraltro che potrebbe forse creare più problemi di quanti ne possa risolvere, se non si saranno costituite le unioni politiche, di cui si è detto, all’interno delle quali compensare le grandi diversità territoriali nell’insorgenza, nella velocità e nell’intensità del declino demografico.
POVERTA’. In economia il termine p. esprime una molteplicità di significati. La p. rappresenta difatti un fenomeno legato allo sviluppo della società ed è, dunque, un fenomeno complesso analizzabile sotto diversi aspetti. La p. in senso assoluto può essere definita come la carenza dei mezzi indispensabili alla mera sussistenza dell’individuo. Ma tale definizione non è sufficiente a rendere il concetto univoco. Infatti la stessa sussistenza è definita in maniera diversa dalle varie teorie economiche. Inoltre la carenza dei mezzi è legata alle condizioni storiche di sviluppo della società (la p. di una società primitiva è diversa dalla p. di un’economia industrializzata) e varia in base al territorio in cui essa si manifesta. Queste connotazioni di relatività del concetto di p. possono essere ulteriormente ampliate in riferimento alla struttura sociale considerata. Difatti, dati il luogo e un’epoca storica, la p. non esprime soltanto la condizione di coloro che possiedono una quantità di beni materiali insufficienti alla sopravvivenza, ma anche di coloro che ne possiedono in quantità minore rispetto ad altri individui. In tal senso il concetto di p. è relativo anche alla distribuzione dei beni che si realizza nell’ambito di una medesima struttura sociale.
Peraltro, nelle società attuali, il problema della p. assume aspetti completamente diversi a seconda che si considerino paesi industrialmente avanzati o paesi arretrati. Nei primi, il livello complessivo del prodotto nazionale è abbastanza alto da consentire un alleviamento della p. attraverso una redistribuzione; tuttavia in essi si riscontra il fenomeno delle cosiddette isole di p. , cioè di regioni sottosviluppate rispetto al resto del paese cui appartengono, o anche di zone urbane in cui si concentra un gran numero di individui poveri e in genere socialmente emarginati. Nei paesi meno sviluppati il prodotto pro capiteè invece così basso che una ripartizione di reddito fra ricchi e poveri non sortirebbe l’effetto di accrescere i beni materiali dei poveri. Mentre nei paesi sviluppati la possibilità di risolvere il problema della p. è dunque data dalle politiche redistributive, nei paesi arretrati i programmi di riduzione della p. si identificano sia con quelli rivolti a favorire la crescita economica, sia con i trasferimenti di reddito dai paesi ricchi a quelli poveri orientati verso la promozione dello sviluppo economico. È possibile peraltro parlare di p. nell’ambito di una società soltanto individuando un certo livello di riferimento (linea della p. ).
Attraverso la costruzione di un paniere si definisce lo standard di p. assoluta e relativa. Per la misura della p. assoluta si utilizza un paniere di beni e servizi essenziali in grado di assicurare alle famiglie uno standard di vita che eviti forme di esclusione sociale. Il valore monetario di tale paniere costituisce la soglia di p. assoluta per l’anno in cui è stato definito; viene aggiornato nel tempo per tenere conto delle variazioni dei prezzi di beni e servizi. Ovviamente questo modo di misurare la p. assoluta è arbitrariamente condizionato dall’identificazione del paniere; i paesi che operano tali misurazioni aderiscono a standard internazionali che stabiliscono quali beni e servizi sono considerati essenziali. La linea di p. relativa viene invece costruita attraverso indicatori statistici della distribuzione del reddito in una nazione. La p. relativa implica quindi un concetto di ‘distanza’ del reddito tra gruppi sociali ed è più vicina al concetto di disuguaglianza. Accanto a queste due macro-misure di p., l’EUROSTAT (istituto di statistica europeo) stabilisce altri standard di misurazione della p., come il rischio di p. , definito come la percentuale di individui al di sotto del 60% del reddito mediano disponibile nel paese. Tale rischio di p. viene definito persistente se gli individui stazionano in tale zona per due anni consecutivi negli ultimi tre di registrazione statistica. Queste misure vengono calcolate sia al lordo sia al netto dei trasferimenti sociali.
Lo stato di p. può anche essere visto però come l’esclusione di un individuo o di un gruppo dalla partecipazione alla vita economica e politica e dall’integrazione sociale nella comunità a cui appartiene; tale esclusione può essere originata sia da fattori soggettivi, come l’età o le condizioni di salute, sia da fattori connessi con l’organizzazione sociale nel suo complesso, come il livello di accesso ai servizi sociali, il grado di istruzione, le opportunità occupazionali, il godimento o meno di alcuni diritti di cittadinanza. Anche a livello delle istituzioni internazionali si è, perciò, considerato opportuno misurare la p. non solo in termini di reddito o di spesa per consumi ricorrendo agli indici di diffusione (o di incidenza) della p. e agli indici di intensità della p. , ma anche attraverso indici costruiti facendo riferimento alla combinazione delle diverse cause da cui la p. può dipendere. Dal 1997 l’UNDP (organismo delle Nazioni Unite finalizzato alla promozione dello sviluppo) ha studiato l’andamento della p. nei paesi industrializzati e nei paesi in via di sviluppo utilizzando l’indice di p. umana (IPU), che tiene conto non solo del reddito pro capite, ma anche delle opportunità degli individui di vivere un’esistenza accettabile. In particolare, l’IPU raggruppa in un unico indice composito quattro dimensioni di base dell’esistenza umana: la durata della vita e le condizioni di salute; l’accesso alle conoscenze; la disponibilità economica; il grado di partecipazione sociale. Questi indicatori sono stati presi in considerazione per il calcolo dell’indice di p. umana relativo sia ai paesi industrializzati sia a quelli in ritardo economico. Tuttavia, in considerazione della forte diversità esistente tra paesi avanzati e paesi in via di sviluppo, gli indicatori utilizzati per misurare le dimensioni della deprivazione in essi sono diversi. Nella costruzione dell’indice per i paesi in via di sviluppo (IPU-1) la deprivazione relativa alla longevità è rappresentata dalla percentuale di individui che hanno una speranza di vita inferiore a 40 anni, la deprivazione nelle conoscenze è espressa dalla percentuale di adulti analfabeti, la deprivazione relativa allo standard di vita è espressa in termini di percentuale di popolazione priva di accesso all’acqua potabile e ai servizi sanitari e di percentuale di bambini di età inferiore ai 5 anni gravemente o moderatamente sottopeso; nell’indice non è inclusa una misura del grado di partecipazione sociale data la difficoltà di reperire dati affidabili, sotto questo profilo, relativi a tali paesi. Nella costruzione dell’indice di p. per i paesi industrializzati (IPU-2) la deprivazione relativa alla longevità è rappresentata dalla percentuale di individui che hanno una speranza di vita inferiore a 60 anni, la deprivazione relativa alle conoscenze è data dalla percentuale di persone adulte funzionalmente analfabete, la deprivazione nello standard di vita è rappresentata dalla percentuale di popolazione che vive al di sotto della linea della p. relativa (50% del reddito pro capite) e, infine, la mancata partecipazione sociale è misurata dal tasso di disoccupazione di lungo periodo (12 mesi o più) della forza lavoro.
Quando non si opera all’interno della logica multidimensionale, per analizzare la p. e la sua evoluzione nei paesi industrializzati e in quelli in via di sviluppo, come pure per effettuare comparazioni tra i diversi paesi, vengono adottate metodologie diverse. Nelle rilevazioni ufficiali dei paesi industrializzati si fa riferimento all’ISPL (international standard of poverty line), che consente di misurare la p. in termini relativi rispetto al tenore di vita medio della popolazione. Così, si definisce povera una famiglia di due componenti che ha una spesa per consumi inferiore o uguale alla spesa media pro capite nel paese e, per famiglie di diversa ampiezza, si ricorre a coefficienti correttivi in modo da tenere conto delle economie di scala realizzabili all’aumentare della dimensione del nucleo familiare. Infine, organismi internazionali come la Banca Mondiale, per effettuare comparazioni tra paesi diversi, adottano una ‘soglia di povertà per i confronti internazionali’.
Gli ultimi decenni del Novecento hanno visto un certo incremento del tenore di vita della popolazione dei paesi in via di sviluppo. La crescita dei consumi è stata accompagnata da miglioramenti sostanziali degli indicatori sociali. Nonostante ciò, i risultati non sono stati conseguiti da tutti i paesi e lo stato di p. continua a essere un fenomeno ancora molto diffuso. Nel corso degli anni 1990 la percentuale della popolazione mondiale che viveva in condizioni di p. è andata lentamente riducendosi, ma l’andamento è stato assai differenziato tra le diverse aree del mondo. Dal 2000 le Nazioni Unite hanno lanciato il Millennium Development Goals che fissa una serie di obiettivi per la riduzione della p. nel mondo entro il 2015. Secondo il rapporto 2007, gli effetti di tali politiche iniziano a farsi consistenti. La percentuale di individui nella soglia di p. assoluta è passata da un terzo a un quinto nel periodo 1990-2004. Nelle zone più povere del mondo, l’Africa subsahariana, il tasso di p. si è ridotto di sei punti percentuali, benché l’emergenza umanitaria resti ancora molto alta. La riduzione di p. è andata di pari passo con la maggiore istruzione; il tasso di iscrizione alla scuola primaria è passato dall’80% all’88% tra il 1999 e il 2005, così come si è ridotta la mortalità infantile.
La Banca mondiale definisce p. estrema lo stato relativo a individui che vivono con meno di 1,25 dollari al giorno (in parità del potere di acquisto) e p. moderata con 2 dollari giornalieri. Nel periodo 1990-2005 la percentuale di p. estrema è passata dal 41,7% al 25,2%, ma il quadro è molto complesso se si guarda ai singoli paesi. Molta di questa riduzione è da ascriversi ai migliori standard di vita e reddito dei paesi asiatici. (v. tab.)
Il fenomeno della p. riguarda, anche se con ovvie differenze in termini assoluti, sia i paesi industrializzati sia i paesi in via di sviluppo. La p. in Italia, come in Europa, si presenta direttamente correlata con le trasformazioni della struttura produttiva e del sistema sociale che hanno caratterizzato gli anni 1990 e i primi anni del 2000. È emersa una realtà complessa del disagio individuale e di gruppo: le disuguaglianze dei redditi e dei consumi; l’articolazione delle situazioni di emarginazione nel territorio, nelle grandi città e nelle campagne; l’aggravarsi della mancata soddisfazione di taluni bisogni fondamentali come la casa, la salute, l’occupazione, l’istruzione; le disparità intergenerazionali; le nuove forme di p. in rapporto alla cultura e all’accesso alle nuove tecnologie. Per il 2007-08 l’UNDP ha calcolato con riferimento ai paesi industrializzati l’indice di p. umana. Sulla base dei valori ottenuti per l’IPU-2 la Svezia è il paese con p. umana più bassa (6,3%), seguita da Norvegia (6,8%) e Paesi Bassi (8,1%). Stati Uniti e Regno Unito registrano invece una p. umana più elevata, pari rispettivamente al 15,4% e al 14,8%. Per l’Italia è stato calcolato sempre nello stesso periodo un IPU-2 pari al 29,8%.
A causa delle difficoltà insite nei concetti non direttamente economici usati per stabilire il livello di p., le indagini ufficiali sulla p. in Italia postulano una sostanziale identità tra benessere e livello di reddito o capacità di spesa delle famiglie. La metodologia ufficialmente adottata in Italia è basata sull’ISPL. Per misurare la p. in termini relativi si utilizzano i dati sulle spese per consumi desunti dall’ISTAT sui consumi delle famiglie italiane. Secondo l’ISTAT, nel 2008 le famiglie in condizione di p. relativa in Italia erano 2.737.000, pari all’11,3% delle famiglie residenti. Si trattava complessivamente di 8.078.000 individui, il 13,6% dell’intera popolazione. La spesa media mensile per persona rappresentava la soglia di p. per una famiglia di due componenti e corrispondeva, nel 2008, a 996,67 euro al mese (+1,4% rispetto alla linea del 2007). Le famiglie composte da due persone con una spesa media mensile pari o inferiore a tale valore vengono quindi classificate come povere. La diminuzione dell’incidenza della p. relativa nel 2008 rispetto al 2004 non risulta statisticamente significativa e mostra quindi come la p. sia sostanzialmente stabile. Il fenomeno continua a essere maggiormente diffuso nel Mezzogiorno (23,8%), dove l’incidenza di p. relativa è quasi 5 volte superiore a quella osservata nel resto del paese (4,9% nel Nord e 6,7% nel Centro), e tra le famiglie più ampie. Si tratta per lo più di coppie con tre o più figli e di famiglie con membri aggregati (l’incidenza è rispettivamente del 25,2% e del 19,6% ). La situazione è più grave se i figli hanno meno di 18 anni: l’incidenza di p. tra le famiglie con tre o più figli minori sale, infatti, in media, al 27,2% e, nel Mezzogiorno, addirittura al 38,8%. Il fenomeno è inoltre più diffuso tra le famiglie con anziani, nonostante il miglioramento osservato negli ultimi anni: se l’anziano in famiglia è uno solo l’incidenza è prossima alla media nazionale (11,4%), se ve ne sono almeno due sale al 14,7%. La p. è inoltre associata a bassi livelli di istruzione della persona di riferimento (l’incidenza è del 17,9% quando è a capo della famiglia una persona con al più la licenza elementare), a bassi profili professionali (tra le famiglie con componenti occupati è povero il 14,5% delle famiglie con a capo un operaio o assimilato) e, soprattutto, all’esclusione dal mercato del lavoro: l’incidenza di p. tra le famiglie con persona di riferimento in cerca di occupazione è pari al 33,9% e sale al 44,3% se in questa stessa situazione si trovano almeno due componenti (contro il 9,6% delle famiglie in cui nessun componente è alla ricerca di lavoro).
Osservando il fenomeno con un maggior dettaglio territoriale, l’Emilia-Romagna appare la regione con la più bassa incidenza di p. (pari al 3,9%), seguita dalla Lombardia e dal Veneto, con valori inferiori al 5%. La situazione più grave è, invece, quella delle famiglie residenti in Sicilia, dove il valore osservato, pari al 28,8%, è significativamente superiore rispetto alla media.
Le politiche economiche utilizzate per affrontare il problema della p. si possono dividere in tre gruppi principali: le misure intese ad assicurare il soddisfacimento dei bisogni di base; le politiche di sviluppo economico; le politiche di redistribuzione del reddito.
Quanto ai bisogni di base, sono oggetto d’intervento pubblico soprattutto l’alimentazione e le cure mediche. Il soddisfacimento dei bisogni nutrizionali di sussistenza è l’obiettivo principale delle politiche di distribuzione alimentare che sono particolarmente importanti nei paesi in via di sviluppo, ma hanno un notevole peso anche in alcuni paesi industrializzati. Allo stesso modo le cure mediche gratuite per i meno abbienti, benché facciano parte dei meccanismi di Welfare State diffusi in tutto il mondo civilizzato, assumono particolare importanza nei paesi in via di sviluppo, in combinazione con le misure di igiene, la fornitura di acqua potabile e l’educazione sanitaria.
Le politiche di sviluppo economico costituiscono l’opzione più efficace per affrontare il problema della p. perché si propongono di eliminarne le cause, instaurando meccanismi autonomi di produzione del reddito nei gruppi dei poveri. Le istituzioni economiche internazionali (UNDP, OCSE, Banca Mondiale, FMI) hanno sottolineato più volte la centralità del problema della p. tra gli obiettivi della loro azione. Nel 2001 la Banca Mondiale ha proposto una strategia da seguire per la riduzione della p. basata su tre obiettivi fondamentali: promozione delle opportunità, facilitazione dell’empowerment (acquisizione di strumenti di conoscenza e di possibilità di partecipazione sociale e politica), accrescimento della sicurezza. Le istituzioni internazionali, oltre che contribuire al raggiungimento degli obiettivi indicati, hanno il compito di intervenire per consentire ai paesi in via di sviluppo di dedicare risorse al superamento dello stato di p. in cui versano. In questa direzione è orientata l’iniziativa per la riduzione del debito adottata dal FMI e dalla Banca Mondiale, tendente a ridurre a livelli sostenibili il peso del debito estero dei paesi fortemente indebitati. Allo stesso obiettivo tende una forma di facilitazione creditizia introdotta dal FMI nel 1999, la Poverty Reduction and Growth Facility (PRGF), che mira a mettere fondi a disposizione dei programmi a favore dei poveri che siano definiti dagli stessi paesi in via di sviluppo (i 77 paesi a basso reddito) nell’ambito della loro strategia orientata allo sviluppo e alla lotta contro la povertà.
RICCHEZZA. Quantità di risorse economiche accumulate da un individuo o da un intero Paese fino a una certa data. Per questa ragione, ha scritto Angelo Baglioni, la r. è definita come una grandezza ‘stock’, da non confondere con un’altra grandezza ‘flusso‘ molto importante: il reddito, che designa l’insieme dei beni e servizi prodotti in un Paese in un determinato periodo di tempo, per es. un trimestre (reddito nazionale); oppure le entrate conseguite da un individuo in un certo periodo, per es. un anno (reddito individuale).
Ricchezza finanziaria e ricchezza reale. La r. può essere detenuta in diverse forme e indica l’insieme di attività finanziarie possedute da un individuo o da una collettività. Gli strumenti che compongono la r. finanziaria possono differire tra loro per il rendimento atteso, per il rischio e per la liquidità. La scelta della composizione della r. finanziaria è oggetto della teoria di portafoglio che illustra come un operatore razionale cerchi di combinare al meglio i mezzi finanziari in cui investe, tenendo conto delle sue preferenze e degli strumenti disponibili sul mercato. La r. reale è invece l’insieme delle attività reali detenute da un individuo o da una collettività, a partire da immobili e terreni. Rispetto a quella finanziaria, questa forma di r. si caratterizza per la scarsa liquidità: la vendita di una casa è un processo assai più lungo e costoso rispetto a quella di un titolo (azione, obbligazione) scambiato sui mercati finanziari. D’altra parte, la r. reale presenta il vantaggio che il suo valore non viene intaccato da un eventuale processo inflazionistico, mentre quella finanziaria subisce l’erosione dovuta all’inflazione. Con riferimento a un Paese, la r. reale comprende le sue strutture produttive (impianti industriali) e le infrastrutture: strade, ferrovie, reti informatiche. Queste risorse sono frutto degli investimenti passati: il loro livello e la loro qualità condizionano in modo cruciale le possibilità di generare redditi futuri e crescita economica. Anche per un individuo, la r. accumulata dipende dai risparmi e dagli investimenti effettuati in passato.
Sia la r. finanziaria sia quella reale sono soggette a oscillazioni di valore nel tempo. In particolare, alcune forme di investimento finanziario, come le azioni e i titoli di debito quotati in borsa, possono andare incontro a variazioni molto repentine, e dare luogo al cosiddetto effetto ricchezza. Ciò avviene quando le oscillazioni del valore della r. si riflettono sul livello dei consumi, per es. allorché il valore delle azioni si riduce, e coloro che hanno investito una quota rilevante della loro r. in azioni sono indotti a diminuire i loro consumi per compensare il fatto di essere diventati più poveri. Tale comportamento può peraltro avere effetti pro-ciclici se, per es., mentre la borsa scende, scontando una fase negativa del ciclo economico, il suddetto decremento dei consumi aggrava la fase congiunturale già debole.
Ricchezza umana. Un’importante forma di r. è quella umana. Per un individuo, il ‘capitale umano’ consiste nella qualità dell’istruzione ricevuta e nelle esperienze lavorative maturate nel corso del tempo, oltre che, naturalmente, nelle sue doti naturali (per es. la salute) e le capacità personali (per es. l’intelligenza, ma anche le conoscenze e le competenze ricevute in famiglia). Lo stesso vale a livello aggregato, cioè con riferiomento a un intero Paese. Anche la r. umana, al pari di quella reale e finanziaria, dipende dagli investimenti fatti in passato. Per accrescere il proprio capitale umano, una persona deve fare esperienze professionali, frequentare la scuola e l’università e così via, rinunciando per un certo periodo di tempo al reddito che potrebbe ottenere lavorando. Analogamente, una nazione può migliorare la qualità del suo capitale umano investendo risorse nell’istruzione e nei programmi di formazione all’interno dei luoghi di lavoro e altrove.
FAME. L’avvento della globalizzazione non ha sconftto la fame nel mondo. Denunciando gli enormi costi sociali ed economici della malnutrizione, il Direttore Generale della FAO, José Graziano da Silva, ha sollecitato un impegno più risoluto per sradicare fame e malnutrizione nel mondo. Nel suo intervento per il lancio della pubblicazione annuale della FAO The State of Food and Agriculture – SOFA 2013 (“Lo Stato dell’alimentazione e dell’agricoltura”) Graziano da Silva ha dichiarato che anche se qualche progresso è stato fatto, “è ancora lunga strada da percorrere “.
“Il messaggio della FAO è che occorre lottare fino a quando fame e malnutrizione non saranno del tutto sradicate”, ha dichiarato.
Nel rapporto Food systems for better nutrition (“Sistemi alimentari per una migliore nutrizione”) si fa notare che se è vero che sono circa 870 milioni le persone che nel 2010-2012 soffrivano la fame, questa cifra rappresenta solo una piccola percentuale dei miliardi di persone la cui salute, il cui benessere e la cui vita sono messi a repentaglio dalla malnutrizione.
Secondo il rapporto SOFA 2013, sono circa due miliardi le persone che soffrono di una o più carenze di micronutrienti, mentre 1,4 miliardi sono in sovrappeso, di cui 500 milioni obesi. Il 26% dei bambini al di sotto dei cinque anni sono rachitici e presentano disturbi della crescita e il 31% di essi soffre di carenza di vitamina A.
Il costo della malnutrizione per l’economia globale, in termini di perdita di produttività e di costi sanitari sono “alti in modo inaccettabile” e in alcuni casi rappresentano fino al 5% del prodotto interno lordo globale – 3.500 miliardi dollari, vale a dire 500 dollari a persona. Questa cifra è quasi l’intero PIL annuo della Germania, la più grande economia d’Europa.
Sul piano sociale, la malnutrizione infantile e materna continua a minare la qualità e l’aspettativa di vita di milioni di persone, mentre i problemi di salute correlati all’obesità, ad esempio le malattie cardiache e il diabete, colpiscono altri milioni di persone.
Per combattere la malnutrizione, il SOFA sostiene che una dieta sana ha inizio dalla qualità degli alimenti e da corretti sistemi agricoli. Il rapporto evidenzia che il modo in cui coltiviamo, raccogliamo, trasformiamo, trasportiamo e distribuiamo i prodotti alimentari influisce in modo determinante su ciò che mangiamo, e che migliori sistemi alimentari possono rendere il cibo più accessibile, più vario e più nutriente.
Tra le raccomandazioni specifiche contenute nel rapporto:
• Impiegare politiche agricole, investimenti e ricerca appropriati, per incrementare la produttività non solo di cereali di base come il mais, il riso e il grano, ma anche dei legumi, della carne, del latte, della frutta e verdura, tutti alimenti ricchi di sostanze nutritive.
• Tagliare le perdite e gli sprechi, che si calcola oggi ammontino a circa un terzo del cibo prodotto annualmente per il consumo umano. Questo potrebbe contribuire a rendere il cibo più accessibile e abbordabile, oltre a ridurre la pressione sul suolo e sulle altre risorse.
• Migliorare la qualità nutrizionale della filiera alimentare, aumentando la disponibilità e l’accessibilità a una grande varietà di alimenti. Sistemi alimentari organizzati correttamente sono fondamentali per avere diete più sane e diversificate.
• Aiutare i consumatori a fare delle buone scelte alimentari fornendo maggiori informazioni ed educazione sul cibo.
• Migliorare la qualità nutrizionale degli alimenti in modo da eliminarne gli elementi nocivi.
• Rendere i sistemi alimentari più rispondenti alle esigenze delle madri e dei bambini. La malnutrizione durante i critici “primi 1000 giorni” dal concepimento può causare danni permanenti alla salute delle donne, e nei bambini, disabilità fisica e cognitiva.
Il ruolo delle donne
Secondo il rapporto conferendo alle donne un maggiore controllo sulle risorse e sul reddito, si otterrebbero benefici immediati per la loro salute e per quella dei loro figli. Politiche, interventi e investimenti in tecnologie agricole di risparmio di manodopera e nelle infrastrutture rurali, oltre a sistemi di protezione sociale e servizi, possono anche dare un contributo importante alla salute e alla nutrizione delle donne, dei neonati e dei bambini.
Alcuni progetti sono riusciti a far aumentare i livelli di nutrizione, tra questi alcuni che hanno favorito l’incremento della produzione, della commercializzazione e del consumo di verdure e legumi locali in Africa orientale, altri che hanno promosso la creazione di orti domestici in Africa occidentale e di sistemi agricoli che uniscono la coltivazione di verdure con l’allevamento del bestiame, insieme ad attività generatrici di reddito, in alcuni paesi asiatici; altri ancora che hanno incoraggiato l’allevamento di colture di base, come le patate dolci, per aumentare il contenuto di micronutrienti, e le partnership pubblico-privato per arricchire prodotti come lo yogurt o l’olio da cucina con sostanze nutritive.
Secondo il rapporto far sì che i sistemi alimentari migliorino la nutrizione è un compito complesso, che richiede un forte impegno politico e una capacità di leadership ai livelli più alti, oltre a partenariati di ampio respiro e azioni coordinate con altri settori importanti come la sanità e l’istruzione.
“Un gran numero di attori e istituzioni devono lavorare insieme, in tutti i settori, per riuscire a ridurre in modo più efficace la sotto-nutrizione, la carenza di micronutrienti, ed anche il sovrappeso e l’obesità”, si legge nel rapporto.
“E’ dunque un’assoluta priorità istituire una governance dei sistemi alimentari che fornisca leadership, che coordini in modo efficace e che promuova la collaborazione tra i tanti soggetti coinvolti”.
CLIMA. Altrettanto preoccupante è la situazione ambientale. A l’occasion de la Journée mondiale des océans, le 8 juin, le Secrétaire général de l’ONU a rappelé dans un message que les océans, du commerce à l’alimentation en passant par la régulation du climat, faisaient partie intégrante de l’humanité tout entière. « Cela est d’autant plus vrai pour les populations côtières dont les revenus et la culture sont irrévocablement liés à la mer », poursuit M. Ban, qui a ajouté que si « nous voulons tirer pleinement parti des océans, nous devons inverser la tendance et enrayer la dégradation du milieu marin causée par la pollution, la surpêche et l’acidification. » « J’invite toutes les nations à œuvrer à cette fin, notamment en adhérant à la Convention des Nations Unies sur le droit de la mer et en la mettant en application », affirme le Secrétaire général.« Unissons nos efforts en vue de trouver de nouveaux modes d’action afin d’assurer la pérennité des océans, pour l’humanité et la planète », conclut Ban Ki-moon.
IL RUOLO DELLO STATO. Il ruolo dello Stato nelle economie capitalistiche è sempre stato definito dalla teoria economica sulla base di tre elementi: a) le modalità di funzionamento del sistema economico, considerato nella sua capacità di autoregolazione sotto il duplice aspetto della piena utilizzazione delle risorse produttive e della promozione dello sviluppo; b) le valutazioni di ordine equitativo riguardanti gli effetti che i meccanismi di mercato producono sulla distribuzione del reddito e della ricchezza e, quindi, sulla coesione sociale in senso lato; c) l’idoneità dei processi decisionali concretamente ipotizzabili a favorire scelte e comportamenti coerenti con un’ordinata evoluzione della vita economica.
Con riferimento al primo punto, la teoria neoclassica ha dimostrato che un sistema concorrenziale, verificate alcune condizioni, per una certa distribuzione delle risorse e in assenza di vincoli non riconducibili alla tecnologia e alla dotazione di fattori produttivi, è in grado di produrre risultati ottimali, nel senso dato al termine da Vilfredo Pareto (è impossibile raggiungere una configurazione di prezzi e quantità che comporti il miglioramento del livello di utilità di un individuo senza che a esso sia associata la diminuzione dell’utilità di almeno un altro individuo). Le condizioni che devono essere verificate perché sia possibile associare un sistema di concorrenza perfetta e l’ottimalità, nel senso inteso da Pareto, sono stringenti, in quanto riguardano l’informazione completa e simmetrica per tutti gli operatori economici, la completezza dei mercati, l’assenza di rendimenti crescenti di scala, oltre che l’inesistenza di esternalità e di beni pubblici. Dalla realistica ipotesi che alcune o tutte queste condizioni non siano in concreto verificate emerge un ruolo necessariamente di competenza dello Stato, complementare al (oppure sostitutivo del) funzionamento del sistema capitalistico.
Per quanto riguarda il secondo punto, la definizione in base a meccanismi di mercato delle remunerazioni dei titolari dei fattori produttivi e dell’allocazione dei diritti di proprietà, anche se coerente con principi di razionalità economica, può determinare processi di concentrazione del reddito o delle ricchezze incompatibili con il mantenimento di un equilibrio sociale riconducibile allo stesso concetto di democrazia politica. Da questa considerazione emerge un ruolo dell’autorità pubblica con finalità redistributive o di controllo della distribuzione del reddito, che trova concreta realizzazione con il sistema tributario e con la spesa pubblica a finalità sociale.
Infine, la stessa dinamica della vita politica in tutte le epoche storiche ha dimostrato che l’intervento pubblico nella sfera economica e sociale deve trovare un adeguato inquadramento in norme che regolino l’attività di governi e Parlamenti. Gli effetti disincentivanti prodotti da una pressione fiscale eccessiva o i fenomeni inflazionistici associabili a inappropriate forme di finanziamento dell’attività pubblica rappresentano, nella sostanza, manifestazioni di mancato rispetto di norme fondamentali.
L’individuazione del ruolo dello Stato all’inizio di questo secolo deve necessariamente partire da un esame delle aree problematiche prima indicate. Le conclusioni non possono tuttavia essere univoche, dipendendo essenzialmente dalla più generale impostazione ideologica dell’osservatore, oltre che dalle specifiche circostanze di carattere economico e sociale del Paese o dell’area politica oggetto di analisi. Un giudizio di rilevanza concreta, e di superabilità con appropriati interventi di politica economica, dei fattori di allontanamento dai presupposti analitici del modello concorrenziale, porta a conclusioni, in termini di estensione dell’intervento pubblico, più radicali di quanto non si verifichi quando si valuti fondamentalmente realistico il modello concorrenziale (o comunque in concreto non migliorabile). Analogamente, il diverso peso attribuibile agli effetti disincentivanti o alle considerazioni equitative porta a soluzioni non univoche per i problemi redistributivi. Infine, le stesse regole di governo della finanza pubblica trovano necessariamente fondamento e giustificazione nella lettura che viene data delle specifiche situazioni politiche ed economiche.
Le opzioni di fondo in tema di definizione del ruolo economico dello Stato possono essere colte, secondo il nostro giudizio, organizzando la materia in quattro nuclei: a) interventi nella sfera sociale, rientranti nell’ambito del welfare state; b) regolazione dei processi produttivi; c) sistema tributario; d) regole decisionali in materia di bilancio.
WELFARE STATE. E’ l’insieme delle istituzioni, pubbliche e private, che svolgono due funzioni essenziali: a) garantire a tutti i cittadini le risorse necessarie per un’esistenza dignitosa (cosiddetta funzione assistenziale); b) fornire copertura contro i grandi rischi dell’esistenza (ignoranza, malattia, vecchiaia e disoccupazione), a fronte dei quali le capacità individuali e le funzionalità di mercato sono limitate (funzione assicurativa).
In termini di teoria economica, sulla base dei sintetici riferimenti precedentemente fatti, nell’articolazione dello Stato sociale si possono individuare sia finalità di coesione sociale (quando si assicura a tutti i cittadini un minimo di risorse), sia, e più significativamente, finalità assicurative, giustificate dal venir meno di alcune delle condizioni che determinano l’ottimalità del meccanismo concorrenziale (Barr 2001). È su questa seconda funzione, a nostro giudizio predominante sia sul piano quantitativo sia sul piano dei principi ispiratori nella costituzione dello Stato sociale, che ci concentriamo in modo particolare. Con riferimento alle ipotesi sull’informazione, certamente si può affermare che l’individuo vive in condizione di informazione limitata in relazione all’accesso ad alcuni servizi (si pensi alla sanità); è inoltre tendenzialmente miope, ossia non in grado di prevedere adeguatamente il futuro, e si giustificano quindi forme sostitutive delle scelte individuali (si pensi all’istruzione obbligatoria o a meccanismi previdenziali non volontari). Con riferimento alla completezza dei mercati, nella realtà alcuni di quelli in cui gli individui potrebbero acquistare determinati beni o servizi da loro desiderati non esistono: la copertura assicurativa sanitaria privata è preclusa agli individui ad alto rischio, quali sono, per es., gli individui in età avanzata. Inoltre, le imprese private non sono tipicamente in grado di coprire i rischi sociali, quale l’inflazione, riuscendo pertanto fortemente limitata la possibilità di ottenere adeguate forme di garanzia contro la caduta del reddito reale nella vecchiaia.
Come sintetizza Kenneth J. Arrow (Uncertainty and the welfare economics of medical care, «The Amer-ican economic review», 1963, 53, 5, pp. 941-73), quando il mercato non è in grado di condurre a uno stato ottimale (come accade in un contesto di asimmetria informativa o d’incompletezza dei mercati), la società prenderà, almeno parzialmente, coscienza del problema e istituzioni sociali sorgeranno con il fine di migliorare gli esiti di mercato.
Le precedenti considerazioni spiegano per quale motivo in tutti i Paesi, e in particolare in quelli sviluppati, sia presente un sistema di protezione sociale strutturato. Ma la diversa lettura dei fallimenti di mercato, o dell’allontanamento dalle condizioni ottimali, spiega perché le concrete articolazioni siano anche molto differenziate.
In questo quadro è utile fare riferimento alla tradizionale classificazione dei modelli di welfare state: welfare pubblico, welfare aziendale e welfare fiscale. Nel welfare pubblico la copertura è tendenzialmente universale, anche se le prestazioni, in particolare quelle di natura previdenziale, sono differenziate, dipendendo dalla storia contributiva o retributiva individuale; il finanziamento deriva dai contributi sociali o dalla fiscalità generale. Nel welfare aziendale il diritto alla prestazione deriva da un contratto di lavoro con uno specifico datore, i cui effetti si possono estendere anche a un periodo successivo alla cessazione del rapporto. Le prestazioni sono finanziate da contributi a carico del datore di lavoro o del lavoratore. Il welfare fiscale si risolve invece nella concessione di agevolazioni sotto forma di deduzioni o di detrazioni d’imposta subordinate alla stipulazione di assicurazioni individuali o sanitarie o previdenziali; sono comunque previste forme di tutela destinate alle fasce più povere della popolazione.
I tre modelli nella realtà di ogni Paese si sovrappongono, non essendo possibile individuare un modello puro. È tuttavia possibile distinguere l’ispirazione fondamentale, e le linee di tendenza, nelle principali aree geografiche. È certo che il modello pubblico caratterizza i Paesi europei, con l’unica eccezione rilevante costituita dal sistema pensionistico del Regno Unito, che ha una forte componente non pubblica. Il modello aziendale è invece tipico degli Stati Uniti, sia per la sanità sia per la previdenza, anche se l’intervento diretto pubblico è molto importante in entrambi questi comparti del sistema di protezione sociale: per gli Stati Uniti è ragionevole parlare di sistema misto. Infine, il welfare fiscale, pur essendo riconoscibile in varia forma in tutti i Paesi, non ha avuto finora uno sviluppo organico: merita di essere tuttavia richiamato in questa sede, perché le proposte di riforma del welfare portate avanti negli Stati Uniti negli ultimi anni sembrano tendere a un rafforzamento della componente individuale previdenziale e alla progressiva introduzione di conti sanitari individuali, superando il modello di assicurazione fondato sul rapporto di lavoro. Sulla stessa linea di sviluppo delle componenti individuali si collocano inoltre le proposte di introduzione di vouchers scolastici, al fine di garantire la possibilità di scelta delle famiglie in un quadro di neutralità da parte dello Stato nel finanziamento delle scuole pubbliche e di quelle private.
La valutazione delle implicazioni dei diversi modelli di Stato sociale è essenziale in ogni analisi del ruolo dell’operatore pubblico, sia perché gli interventi per la protezione sociale costituiscono la componente più rilevante dell’azione delle amministrazioni pubbliche (sia direttamente attraverso la spesa, sia indirettamente attraverso le agevolazioni fiscali), sia perché le erogazioni assegnate alla protezione sociale sembrano destinate ad aumentare in futuro, se non altro per ragioni di carattere demografico. Gli effetti del welfare state saranno di seguito considerati sotto diverse angolature: universalismo, collocazione del rischio e sostenibilità macroeconomica.
Al di là di specifiche articolazioni, il welfare pubblico è tendenzialmente universalistico. L’assistenza sanitaria è riconosciuta a tutti i cittadini senza che, in teoria, sia ammessa alcuna discriminazione sulla base del reddito individuale, configurando il diritto alla salute come un diritto di cittadinanza. Il diritto alla pensione è esteso a tutta la popolazione, o perché deriva da un precedente rapporto di lavoro o perché manifestazione di una componente strettamente assistenziale, sotto forma di assegno o pensione sociale. In tutti i Paesi, in forme più o meno strutturate o con vincoli all’accesso più o meno stringenti, la comunità si fa carico delle situazioni di indigenza.
All’ispirazione universalistica non corrisponde tuttavia omogeneità delle prestazioni per alcuni importanti comparti. Escludendo la sanità, le pensioni pubbliche sono nei Paesi europei differenziate in ragione della storia contributiva o retributiva individuale. Quando si fa riferimento alla storia reddituale, le prestazioni tendono a garantire, in condizioni di massima durata del rapporto di lavoro, il mantenimento del tenore di vita nel periodo di pensionamento. Quando si fa riferimento alla storia contributiva, si garantisce un’uguaglianza di rendimento dei contributi versati. Per quanto riguarda invece l’istruzione, al di là della scuola dell’obbligo, l’accesso ai gradi superiori viene nella maggior parte dei casi a dipendere dal merito individuale in un contesto di finanziamento fondato sulla fiscalità generale.
Con riferimento a sanità e previdenza, le conseguenze del welfare aziendale sono diverse in termini di accesso rispetto a quello pubblico. Negli Stati Uniti il sistema pensionistico privato copre la totalità dei dipendenti pubblici e circa il 50% di quelli privati. Nel settore privato la partecipazione non è peraltro distribuita in modo omogeneo, aumentando al crescere del reddito, oltre a essere più elevata nelle grandi imprese, nei settori sindacalizzati e fra i lavoratori a tempo pieno. Una distribuzione analoga vale per le assicurazioni sanitarie private promosse dai datori di lavoro (Artoni, Casarico 2008).
L’accesso relativamente circoscritto al welfare aziendale spiega la presenza di significative componenti pubbliche negli Stati Uniti. La Social security eroga prestazioni decrescenti al crescere del reddito alla generalità dei lavoratori, per importi comunque relativamente bassi: solo i lavoratori che godono della doppia protezione pubblica e privata raggiungono prestazioni assimilabili a quelle europee. Per quanto riguarda l’assistenza sanitaria, due importanti programmi pubblici (Medicaid e Medicare) sono destinati a poveri e anziani, rimanendo comunque non assicurato circa il 17% della popolazione.
Non è possibile in questa sede interrogarsi sulle cause che hanno portato negli Stati Uniti a un modello sostanzialmente discriminante fra i diversi segmenti della popolazione. Qui è possibile solo accennare al fatto che la presenza di forti minoranze etniche, rinnovatesi nel tempo, ha reso possibile limitare il pieno accesso al sistema della protezione sociale. Si può ancora ricordare che il sindacato americano è stato tradizionalmente più corporativo e legato a specifiche realtà aziendali. Questo ha portato a ricercare benefici legati all’appartenenza a grandi imprese, o al settore pubblico, senza che analoga attenzione fosse rivolta alla generalità della popolazione.
In estrema sintesi, si può affermare che il welfare aziendale e quello pubblico si distinguono fortemente per l’elemento universalistico, presente soltanto nel secondo. Rimane il fatto che anche in modelli caratterizzati dal welfare aziendale la presenza pubblica è comunque consistente (negli Stati Uniti la spesa pubblica per welfare raggiunge circa il 12%, un livello analogo a quella privata).
Nelle forme che va assumendo, il welfare fiscale si può ritenere un’evoluzione di quello aziendale: si riduce fortemente il ruolo del datore di lavoro che, in linea generale, viene sostituito da agevolazioni fiscali finalizzate a ridurre il costo dell’accesso, in particolare, ad assicurazioni sanitarie e previdenziali. In questo caso emerge il problema della capacità di larghe fasce della popolazione di far fronte agli oneri corrispondenti; si può ragionevolmente ritenere che i problemi di copertura universalistica, di garanzia di prestazioni adeguate sul piano quantitativo e qualitativo, si accentueranno ulteriormente nel welfare fiscale rispetto a quello aziendale.
Nei modelli pubblici, che si articolano e si fondano per il loro finanziamento sul potere impositivo dell’autorità pubblica, il rischio di inadeguatezza o di annullamento delle prestazioni è a carico della collettività che, in linea di principio, è in grado di rispondere a shock di segno negativo.
Nel welfare aziendale il rischio è posto a carico dell’impresa. Storicamente il welfare aziendale, nelle forme assunte negli Stati Uniti, è stato associato alla crescita delle grandi imprese manifatturiere, in grado di garantire ai loro dipendenti rilevanti benefici sotto forma di piani sanitari e di piani pensionistici; nelle forme previdenziali era caratteristica la commisurazione della prestazione al salario raggiunto nella fase finale della vita lavorativa. In questi piani, a beneficio definito, il rischio in caso di evoluzione negativa per mancata costituzione delle riserve oppure per cattivo andamento dei mercati finanziari era interamente a carico delle imprese, così come a loro carico era il rischio connesso all’allungamento della vita media dei lavoratori in pensione o all’aumento delle spese mediche, quando l’assistenza sanitaria si estendeva al periodo del pensionamento.
Le modifiche nella struttura economica mondiale, con l’indebolimento relativo dei settori manifatturieri nei Paesi di originaria industrializzazione, spiegano perché in molte imprese sia diventato arduo il mantenimento delle prestazioni ai livelli previsti dai piani originari. Dal punto di vista istituzionale, è stato avviato un processo di trasformazione dei piani pensionistici che progressivamente hanno abbandonato il beneficio definito per spostarsi alla contribuzione definita (in cui la prestazione dipende dall’andamento dei mercati finanziari), con la conseguente attribuzione del rischio al singolo lavoratore. In sintesi, le modifiche intervenute negli ultimi anni sono state caratterizzate dallo spostamento del rischio dalle imprese ai lavoratori, avviando la formazione, in alcuni casi, o il rafforzamento, in altri, di un welfare fondato su contratti individuali.
Come abbiamo già osservato, in molti Paesi le linee di riforma, attuate o annunciate, si muovono in questo senso. Nell’individuazione del ruolo dello Stato, ci si deve chiedere fino a che punto l’individuo è in grado di accollarsi rischi, sia pure attraverso la mediazione assicurativa, che investono la sua esistenza in un contesto di radicale incertezza sugli andamenti economici e demografici o per eventi che investono la generalità della popolazione. Si pongono in altri termini due problemi: la capacità individuale di sostenere gli oneri assicurativi e la capacità dei meccanismi assicurativi privati di fronteggiare i rischi sociali.
Nella gestione di un sistema di protezione sociale, compito fondamentale dello Stato è il mantenimento di condizioni di sostenibilità macroeconomica. Nei Paesi sviluppati, le prestazioni sociali, comprensive delle componenti private e al netto delle imposte gravanti sulle stesse prestazioni, si sono collocate negli ultimi anni fra il 25% del prodotto interno lordo (PIL) in Italia e negli Stati Uniti e il 30% in Germania, Francia e Paesi scandinavi.
Le prospettive per i due comparti fondamentali della previdenza e della sanità sono determinate essenzialmente dall’evoluzione demografica: si prevedono, infatti, un rilevante allungamento della vita media, con il conseguente aumento della popolazione anziana, e tassi di natalità a livelli contenuti in molti Paesi. Conseguentemente, le previsioni economiche, per quanto di lunghissimo periodo, indicano un cospicuo aumento, assoluto e relativo, delle spese sociali. La Social security americana, in assenza di qualsiasi intervento normativo, dovrebbe esaurire le sue riserve finanziarie nel 2052 (anche se pochi anni fa il limite era posto al 2030). Gli interventi specifici su un sistema pubblico, se preservato nelle sue caratteristiche essenziali, devono riguardare il controllo della dinamica delle prestazioni. Nel settore pensionistico sono già stati attuati numerosi interventi finalizzati al contenimento della spesa attraverso lo spostamento in avanti nell’età di pensionamento o la riduzione delle prestazioni potenzialmente ottenibili. Risulta tuttavia evidente che la riduzione delle prestazioni non deve compromettere radicalmente l’obiettivo del mantenimento di un ragionevole tenore di vita dopo la cessazione dell’attività lavorativa. Nonostante la spesa cresca in termini di prodotto interno, l’aumento della quota di popolazione anziana comporterà infatti un allargamento del divario tra il reddito medio pro capite di quella attiva e le pensioni.
Nel settore sanitario i sistemi pubblici, attraverso la definizione centralizzata del livello delle remunerazioni e di altre voci di spesa, hanno sempre garantito una dinamica moderata degli esborsi. Anche in questo caso un eccesso di contenimento della spesa, oppure remunerazioni inadeguate, provocano lo svuotamento del servizio pubblico e la conseguente ricerca di modalità di cura alternative.
La delimitazione sostanziale del livello delle prestazioni o della loro accessibilità comporterebbe, di fatto, lo spostamento della responsabilità nella fornitura dei servizi dalla collettività ad altri, siano essi imprese o individui. L’esperienza di alcuni Paesi dimostra che in presenza di domanda rigida, come accade per la sanità, esiste un’ineliminabile tendenza all’aumento del prezzo della prestazione. Qui basti ricordare che negli Stati Uniti i premi assicurativi pagati dalle imprese sono cresciuti negli ultimi anni a un tasso del 10% contro un tasso d’inflazione media del 3%. Sotto questo aspetto si dà un’ulteriore ragione dell’esistenza nei sistemi sanitari a orientamento privato di importanti componenti pubbliche.
Si può concludere questo punto osservando che non esistono soluzioni semplici per il problema del contenimento della spesa sociale. La riduzione della spesa può essere in alcuni casi giustificata come necessaria per la compatibilità con l’evoluzione demografica. Occorre però tenere in dovuta considerazione che la conseguente limitazione delle prestazioni può compromettere obiettivi essenziali di copertura da rischi fondamentali, sovvertendo alcune priorità che dovrebbero essere osservate nella vita collettiva. Nel caso in cui poi la dinamica dei costi degli operatori privati non sia facilmente controllabile, il contenimento della spesa attraverso lo spostamento delle competenze dal settore pubblico a quello privato è molto spesso soltanto apparente.
La sostenibilità non solo economica, ma anche sociale, di un compiuto sistema di protezione dipenderà in generale dai tassi di crescita che si riusciranno a realizzare: tassi di crescita medi annui del prodotto reale dell’ordine del 2% si ritiene renderanno relativamente agevole la soluzione dei problemi di sostenibilità che si manifesteranno.
L’ottimalità di un meccanismo di mercato concorrenziale richiede la presenza di una pluralità di operatori, oppure un tendenziale equilibrio nel potere contrattuale quando si confrontino due parti con interessi contrapposti: le configurazioni di mercato non devono in altri termini portare alla formazione di rendite di monopolio, comunque originate.
Considerando la prima ipotesi, una pluralità di imprese non può mantenersi nel tempo in presenza di rendimenti crescenti di scala (che si hanno quando il costo medio diminuisce all’aumentare dei livelli produttivi); è economicamente efficiente la concentrazione della produzione presso un numero estremamente ridotto d’imprese e, al limite, presso una. Questa situazione, definita monopolio naturale, è tipica delle imprese di pubblica utilità (per es., produzione e distribuzione dell’energia elettrica e del gas, telecomunicazioni e trasporti). Considerando la seconda ipotesi, le asimmetrie di potere contrattuale sono invece tipiche del mercato del lavoro.
Gli interventi nel settore delle pubbliche utilità e le misure volte a regolare il mercato del lavoro sono manifestazioni del ruolo economico dello Stato, secondo modalità che si sono modificate radicalmente nel corso degli ultimi decenni.
In tutta l’Europa occidentale è stata tradizionalmente dominante la proprietà pubblica, centrale o locale, nei settori dei trasporti, dell’energia e delle telecomunicazioni. Alla base di questa scelta stavano, in primo luogo, motivazioni di ordine tecnologico cui abbiamo già accennato: in presenza di rendimenti crescenti di scala è giustificata la presenza di una sola impresa. Il comportamento di tale impresa, se la proprietà fosse privata, dovrebbe essere disciplinato dall’autorità pubblica. D’altro canto la tariffazione efficiente, che richiede un prezzo uguale al costo marginale, avrebbe comportato un prezzo inferiore al costo medio di produzione e quindi profitti negativi per l’impresa. L’autorità pubblica, ove avesse assunto come obiettivo l’efficienza economica, avrebbe dovuto erogare sussidi di non facile definizione e comunque portatori di contaminazione fra interessi privati e decisioni pubbliche.
Oltre a considerazioni di efficienza microeconomica statica, la scelta della proprietà pubblica è stata anche ricondotta al riconoscimento che le imprese di pubblica utilità erano e sono produttrici di forti esternalità: in Paesi che non avevano ancora raggiunto il pieno sviluppo economico, il potenziamento di questi settori era giudicato una precondizione per accelerarne il processo di crescita. Questa considerazione ha motivato, in molti casi, la scelta della nazionalizzazione di settori di pubblica utilità nei decenni successivi alla Seconda guerra mondiale. La nazionalizzazione ha poi comportato processi di concentrazione e razionalizzazione produttiva, oltre che stimolato l’accumulazione attraverso una forte spinta agli investimenti. Si noti che, in questo processo, le imprese di pubblica utilità si sono molto spesso verticalmente integrate, coprendo tutti gli stadi della produzione e della distribuzione. Non si dubitava inoltre che ci fosse coincidenza fra comportamento delle imprese e interessi generali, non ritenendosi rilevanti i fenomeni di cattiva gestione o di collusione con il potere politico.
Sulla base di importanti elaborazioni analitiche, l’atteggiamento di favore, teorico e pratico, nei confronti delle imprese pubbliche è rapidamente cambiato: a partire dagli anni Ottanta, in tutti i Paesi sviluppati e in via di sviluppo, è stato quindi avviato un importante processo di privatizzazione che ha fortemente ridotto l’area di proprietà pubblica. Si è in primo luogo sostenuto che la situazione di monopolio naturale era relativamente circoscritta e certamente non riconoscibile nell’intera filiera produttiva: in particolare nel settore elettrico la produzione e la vendita all’ingrosso si potevano svolgere in un quadro concorrenziale, mentre il monopolio poteva essere riconosciuto nella fase della trasmissione ed eventualmente in quella della distribuzione. Da qui sono derivati i numerosi interventi finalizzati alla liberalizzazione dei settori potenzialmente competitivi e alla disintegrazione verticale della filiera produttiva, fino a quel momento facente capo a una sola impresa.
È stato inoltre affermato che la proprietà pubblica era, in quanto tale, tendenzialmente inefficiente o comunque meno efficiente di quella privata. Alla luce di queste considerazioni si è dato avvio a importanti processi di modificazione degli assetti proprietari, con il passaggio di quote azionarie, anche se non sempre del controllo, a operatori privati. Il permanere di fasi di monopolio naturale, per es. nella fase di trasmissione o per ‘l’ultimo miglio’, e il riconoscimento che l’attivazione di un meccanismo di mercato effettivamente concorrenziale avrebbe richiesto del tempo, sempre se realizzabile, hanno tuttavia portato all’introduzione universale di autorità di controllo e di regolazione del comportamento degli operatori ormai svincolati dal riferimento pubblico. Le autorità fissano in particolare l’evoluzione dei prezzi, utilizzando opportuni meccanismi d’incentivazione all’efficienza. È stato infine sostenuto che solo nei meccanismi di mercato le imprese avrebbero trovato la spinta a sviluppare la capacità produttiva sulla base di corretti criteri di razionalità economica, evitando le suggestioni programmatorie proprie delle imprese pubbliche controllate dal potere politico.
Il processo di riorganizzazione produttiva e di ridefinizione degli assetti proprietari delle imprese di pubblica utilità è ancora in corso, con la conseguenza che non è facile fornirne una valutazione compiuta.
Per alcuni settori, come le telecomunicazioni, l’evoluzione tecnologica ha portato al superamento di molte delle barriere preesistenti con la creazione di contesti ragionevolmente concorrenziali. In altri settori (per es., elettricità e gas) la formazione di strutture concorrenziali è ancora relativamente circoscritta, essendosi anzi manifestati fenomeni di concentrazioni trans-nazionali (a forte carattere monopolistico), giustificati forse in presenza di un’efficiente autorità di controllo sovranazionale, quale potrà essere l’Unione Europea, ma in altri casi potenzialmente pericolosi per gli interessi strategici dei singoli Paesi. Tutto ciò ha rallentato in molti casi il completamento dei processi di privatizzazione e i tentativi di liberalizzazione.
In ogni caso, non sono sorti rapidamente quei mercati concorrenziali che all’inizio del processo di privatizzazione si ritenevano realizzabili in tempi brevi. Il ruolo delle autorità di regolazione (di emanazione politica) continua a ricoprire un ruolo essenziale e sembra destinato a protrarsi nel tempo, con tutti gli aspetti problematici riconducibili ai problemi di acquisizione e di elaborazione delle informazioni da parte di queste autorità. Sia pure in forma diversa rispetto al passato, il ruolo dello Stato continua a essere importante, e lo sarà ancora di più in futuro se si dimostrerà che imprese private operanti in settori a carattere fortemente monopolistico non hanno adeguati incentivi allo sviluppo della loro capacità produttiva e all’innovazione (Guthrie 2006).
Attraverso un processo secolare si è formato in tutti i Paesi un insieme di norme che regolano il mercato del lavoro. Si possono distinguere norme finalizzate alla salvaguardia dell’integrità fisica del lavoratore da norme che proteggono il prestatore di lavoro da comportamenti arbitrari del datore di lavoro, impedendo in particolare il licenziamento immotivato. Infine, per garantire un tendenziale equilibrio di potere contrattuale fra le parti sociali, è stata affermata la centralità della contrattazione collettiva.
Alla base di questa complessa costruzione si possono riconoscere importanti ispirazioni teoriche. In primo luogo, vale un principio di democrazia sostanziale, per il quale il lavoratore non è semplicemente una merce, ma piuttosto un cittadino. Nelle parole di Karl Polanyi, «la presunta merce ‘forza-lavoro’ non può infatti essere fatta circolare, usata indiscriminatamente e neanche lasciata priva di impiego, senza influire anche sull’individuo umano che risulta essere il portatore di questa merce particolare» (The great transformation, 1944; trad. it. 1974, p. 94).
Nelle impostazioni keynesiane, che valutano in termini problematici le capacità di autoregolazione dei sistemi capitalistici, è stata sempre sottolineata l’importanza di politiche economiche capaci di garantire un’equilibrata distribuzione del reddito fra le parti sociali, vista come presupposto per il mantenimento della domanda aggregata a livelli appropriati. I processi di contrattazione collettiva costituiscono un elemento essenziale delle cosiddette politiche dei redditi, a cui si è fatto ampio riferimento nei decenni successivi alla Seconda guerra mondiale per garantire una crescita elevata in un contesto non inflazionistico.
I sistemi di regolazione del mercato del lavoro appena descritti sono stati radicalmente posti in discussione a partire dagli anni Ottanta su linee analoghe a quelle che hanno portato alla privatizzazione delle pubbliche utilità. I regimi di protezione del lavoro, opportunamente classificati, sono stati considerati causa di inefficienza economica, poiché allontanano i sistemi dalla piena occupazione o favoriscono la formazione di rendite a favore di coloro che erano già occupati. Il potere dei sindacati doveva essere circoscritto, in quanto nella generalità dei casi le associazioni dei lavoratori si sono rivelate fattori di distorsione e non di equilibrio dei rapporti contrattuali (salvo il caso di un loro coinvolgimento istituzionale nelle politiche di contenimento della dinamica salariale). Più in generale, le politiche economiche in molti Paesi hanno promosso mercati del lavoro flessibili, con un evidente e immediato richiamo alle più elementari formulazioni del modello concorrenziale (Artoni, D’Antoni, Del Conte, Liebman 2006).
Il tutto trova una sintesi nelle posizioni delle organizzazioni internazionali, in particolare l’OECD (Organisation for Economic Co-operation and Development), che sostengono che le performances economiche mi-gliori sono associate positivamente alla liberalizzazione del mercato del lavoro: quanto più rigido è il mercato del lavoro, tanto peggiori sono i tassi di crescita o i tassi di occupazione. Questa valutazione dev’essere accolta con cautela. L’evidenza empirica non è univocamente interpretabile, dovendosi comunque sviluppare ricerche più articolate: è stato infatti osservato che la liberalizzazione del mercato del lavoro ha portato alla coesistenza di due modalità contrattuali, a tempo determinato e tempo indeterminato. È dubbio, nell’opinione di Olivier J. Blanchard (2005, p. 32), che tutto ciò abbia portato alla diminuzione della disoccupazione; è peraltro certo che è stato creato un mercato del lavoro duale con lavoratori protetti, da un lato, e lavoratori marginali e scarsamente tutelati, dall’altro.
È evidente che l’accettazione della visione liberista del funzionamento del mercato del lavoro porta a definire un ruolo dello Stato molto circoscritto, di fatto quasi assistenziale, per i lavoratori che si trovano disoccupati come conseguenza di frizioni nel processo di riallocazione della forza lavoro. Recentemente sono tuttavia emerse, o riemerse, visioni differenti da quelle dominanti negli ultimi vent’anni. Sembra ormai acquisito che il processo di liberalizzazione del mercato del lavoro, con l’associato indebolimento delle rappresentanze sindacali, abbia prodotto un forte spostamento nella distribuzione funzionale del reddito. Gli effetti negativi sulla dinamica della domanda aggregata in certi Paesi, come l’Italia, sono evidenti e si traducono in tassi di crescita complessivi molto ridotti.
In altri Paesi la modifica della distribuzione dei redditi è stata compensata, come già osservato, da un forte indebitamento delle famiglie, che ha per alcuni anni sostenuto la domanda di consumi privati e quindi la crescita del prodotto interno: questa compensazione, come dimostrano in modo evidente gli eventi del 2007-08, non può tuttavia essere protratta oltre un certo limite. In altri termini, la forte crescita relativa delle economie dei Paesi anglosassoni nell’ultimo decennio, più che alle conseguenze della flessibilizzazione del mercato del lavoro, sembra essere il frutto, appunto, dell’indebitamento e della caduta della propensione al risparmio delle famiglie.
Stanno poi emergendo le preoccupazioni sugli effetti sociali della precarizzazione dei rapporti di lavoro, che coinvolge anche le classi medie, in un quadro interpretativo prefigurato dalla precedente citazione di Polanyi. In questo contesto, il ruolo regolatore dello Stato torna a essere necessariamente più pregnante di quanto non si pensasse solo alcuni anni fa.
Adottando una rappresentazione schematica, possiamo affermare che i sistemi tributari si fondano su un’imposta personale progressiva più o meno strettamente integrata con l’imposta societaria; una o più imposte sul patrimonio, sia ricorrenti sulla proprietà immobiliare, sia saltuarie sui trasferimenti di ricchezza per donazione e successione; un’imposta generale sulle vendite applicata ai consumi, oltre ad accise su particolari beni e servizi. Il prelievo obbligatorio è poi completato dai contributi sociali (oppure da imposte introdotte in loro sostituzione) destinati al finanziamento delle prestazioni sociali.
Ovviamente, anche all’interno di una struttura sostanzialmente omogenea, le possibili articolazioni dei singoli istituti possono portare a risultati molto diversi in termini di livello del gettito o di distribu-zione del carico tributario. In questa sede, per la sua rilevanza, conviene soffermarsi sulle principali caratteristiche dell’imposizione personale, così come si è configurata negli ultimi anni, sia per autonoma determinazione dei singoli Paesi, sia come conseguenza ne-cessaria della comune evoluzione economica.
L’imposta personale sul reddito si caratterizza, in primo luogo, per i criteri di determinazione della base imponibile. La letteratura economica distingue tre possibili basi imponibili. Quando si adotta il concetto di reddito prodotto, sono oggetto di tassazione solo le remunerazioni dei fattori produttivi (salari, rendite, profitti o interessi). In una seconda accezione, la base imponibile è costituita da tutte le entrate afferenti al contribuente, incluse anche le plusvalenze patrimoniali. Infine, oggetto di tassazione personale può essere la spesa per consumo effettuata nel periodo d’imposta, venendosi pertanto a escludere dalla tassazione il risparmio, oltre che le plusvalenze non destinate al finanziamento del consumo.
Se la tassazione personale sulla base del reddito prodotto costituisce la forma più antica, la tassazione che si richiama al reddito entrata è invece tipica dei Paesi con mercati finanziari evoluti. La tassazione fondata sul reddito consumo ha trovato solo parziale applicazione, anche se rappresenta il modello cui, in qualche modo, tendono molti sistemi tributari.
Il riferimento a modelli compiuti, se utile a fini classificatori, può spesso allontanare da una corretta lettura della realtà. Anche in Paesi come l’Italia, l’applicazione del criterio del reddito prodotto ha trovato sempre fortissime attenuazioni nel momento della tassazione dei redditi di capitale, che sono sempre stati in larga misura sottratti all’applicazione dell’imposta personale e fatti oggetto di tassazione con aliquote ridotte (oggi in Italia l’aliquota tipica è pari al 12,5%). È ragionevole definire un’imposta così configurata, più che un’imposta sul reddito complessivo, un’imposta sui redditi di lavoro dipendente.
Anche i Paesi anglosassoni, che sulla base del reddito entrata avrebbero dovuto tassare in sede d’imposta personale, oltre che i redditi di capitale, anche le plusvalenze, si sono fortemente avvicinati a un’imposta personale progressiva applicata essenzialmente ai redditi di lavoro; sono state infatti introdotte tali e tante eccezioni alla tassazione onnicomprensiva che, anche per questi Paesi, si può ragionevolmente parlare di una wage tax associata a una tassazione molto contenuta, non lontana da quella italiana, dei redditi di capitale afferenti alle persone fisiche. L’omogeneità tra i due modelli di sistema tributario descritti può essere intuita dal fatto che il gettito dell’imposizione diretta è nell’area euro pari al 12,2% del prodotto interno, contro il 12,8% degli Stati Uniti; l’Italia si segnala per un gettito relativamente più elevato, pari al 14,5%, dato il livello relativamente elevato delle aliquote effettive sugli scaglioni di reddito più bassi.
La tassazione personale del consumo, se è stata finora quasi esclusivamente applicata attraverso l’esenzione dall’imposta degli accantonamenti previdenziali, ha trovato un forte sostegno teorico in quanto è l’unico sistema d’imposizione personale in grado di evitare la doppia tassazione del risparmio (prima, nel momento della formazione del reddito, poi, nella percezione dei frutti). Da questo punto di vista la tassazione sulla base del ‘reddito consumo’ è compatibile con politiche favorevoli all’accumulazione di capitale e quindi con la crescita economica.
Risulta evidente che la capacità redistributiva di un’imposta, che tassi in misura molto contenuta i redditi di capitale o le plusvalenze, in particolare quelle mobiliari, e che esenti per importi consistenti alcune forme d’impiego del risparmio, è molto limitata. La redistribuzione avviene solo all’interno dei redditi di lavoro e il grado di redistribuzione desiderata dalla collettività è raggiunto solo a condizione che, a monte, non operino meccanismi di definizione dei differenziali salariali tra diversi individui che anticipino e scontino la progressività dell’imposizione.
Il grado di progressività dell’imposta personale, sia pure circoscritta ai redditi di lavoro, è stato ulteriormente attenuato dalla riduzione delle aliquote marginali applicate agli scaglioni più elevati, scesi dal 70% riscontrabile in molti Paesi negli anni Ottanta a circa il 40% attualmente predominante. Considerazioni di equità (l’imposta si applica solo su poche tipologie di reddito) e di incentivo, riconducibili alle analisi empiriche, peraltro non concordanti, sull’elasticità dell’offerta di lavoro alle variazioni della remunerazione netta, spiegano il processo quasi universale di riduzione delle aliquote marginali.
In concorso con la complessiva evoluzione economica, l’erosione della base imponibile e la riduzione delle aliquote marginali più alte dell’imposta personale – la componente più redistributiva di tutti i sistemi tributari – hanno contribuito in molti Paesi ad aumentare l’indice di Gini (che misura la concentrazione nella distribuzione del reddito). Su questa evoluzione ha peraltro influito, o forse ne è stata all’origine, la piena liberalizzazione dei movimenti di capitale, senza che parallelamente si sviluppassero efficaci forme di cooperazione internazionale per il reperimento di materia imponibile. La difficoltà di tassazione delle basi imponibili mobili, quali sono tipicamente i redditi di capitale, associata all’esigenza di salvaguardare gli equilibri dei bilanci pubblici, ha determinato l’inasprimento del peso relativo delle imposte gravanti sui redditi di lavoro. Oggi il capitale sconta un prelievo medio effettivo del 24% e il lavoro è gravato da un’aliquota media effettiva pari a quasi il 38%.
Si deve infine osservare che le imposte patrimoniali (in particolare sotto forma di imposte sulle successioni e donazioni), cui i riformatori di tutti i tempi avevano attribuito un ruolo potenzialmente importante per colpire le fortune immeritate a vantaggio di quelle meritate e per contrastare la concentrazione delle ricchezze, si sono rivelate ovunque assolutamente inefficaci, al punto di essere abolite in molti Paesi.
Il ruolo dello Stato in materia tributaria all’inizio del 21° sec. non può quindi prescindere dai due elementi che abbiamo cercato di evidenziare: erosione tecnica della capacità redistributiva del sistema tributario e limitazione della sovranità nazionale, sotto forma di impossibilità di controllare la localizzazione delle basi imponibili mobili. Questa situazione permarrà fino a quando non si formerà una struttura sovranazionale dotata di poteri adeguati. Le scelte effettivamente aperte ai singoli Stati sono strettamente collegate alla configurazione del sistema di protezione sociale, essendo ineludibile il collegamento fra il livello del gettito tributario, di cui le imposte personali costituiscono una componente essenziale, e l’estensione della spesa pubblica, di cui le spese per la protezione sociale costituiscono la componente più importante. In tutti i Paesi in cui imposte e spese sono elevate, si realizza uno scambio fra la disponibilità di servizi sociali qualificati e il pagamento attraverso la fiscalità generale di questi servizi: data la concentrazione non solo del carico fiscale ma anche delle prestazioni sulle classi medie, gli effetti redistributivi, nell’arco di vita di una persona, sono relativamente limitati. Quando invece la pressione fiscale è bassa e la spesa sociale di diretta competenza delle pubbliche amministrazioni è contenuta, l’accesso ai servizi sociali fondamentali (sanità, previdenza, istruzione) deve trovare un riferimento nel rapporto di lavoro o nei contratti individuali e un sostegno in agevolazioni fiscali, in alcuni casi particolarmente generose. In altra parte di questo saggio abbiamo già visto gli effetti in termini di universalismo e di realizzazione dei diritti di cittadinanza delle diverse tipologie di welfare state. Qui possiamo sottolineare come questa seconda modalità di garanzia dei servizi sociali sia con tutta probabilità più regressiva della precedente (Lindert 2004).
Il processo decisionale in materia di bilancio rappresenta la sede di discussione e individuazione delle priorità di politica economica e di successiva deliberazione delle modalità di intervento nelle varie aree precedentemente discusse. La legge di bilancio e i documenti a essa associati incarnano e definiscono, infatti, gli indirizzi che l’operatore pubblico intende imprimere alla sua azione.
Con l’espandersi del ruolo dello Stato nell’economia che si è verificato, anche se con diversa intensità, in tutti i Paesi industrializzati, si è posta la questione della compatibilità tra i meccanismi di scelta e di decisione delle politiche pubbliche e la crescita controllata ed equilibrata di spese ed entrate, nel rispetto di compatibilità macroeconomiche. Una pressione fiscale eccessiva potrebbe porre problemi di incentivo all’offerta di lavoro e al risparmio. Livelli elevati di spesa pubblica possono spiazzare la spesa privata e, se non accompagnati da un adeguato aumento delle entrate, comportano squilibri di bilancio che impongono emissione di debito. La crescita del debito genera questioni di equità, sia intragenerazionale, sia intergenerazionale: un debito crescente si associa in genere a tassi di interesse crescenti, che ridistribuiscono risorse tra chi presta e chi prende a prestito e trasferisce sulle generazioni future il carico legato a eventuali manovre di risanamento. Un debito elevato può inoltre essere fonte di instabilità finanziaria nel momento in cui si verifichino crisi di fiducia sulla capacità da parte dello Stato di ricondurre le grandezze di bilancio su un sentiero equilibrato.
Il contesto in cui vengono prese le decisioni, ossia gli aspetti procedurali che caratterizzano e in cui si inseriscono le scelte di bilancio, sono visti come un primo e imprescindibile elemento a garanzia di una gestione ordinata della finanza pubblica. Tutte le normative nazionali prevedono regole per la definizione degli obiettivi e per l’implementazione delle politiche di bilancio, distribuendo a documenti o leggi differenti il compito di delineare e attuare le manovre sugli aggregati di finanza pubblica. A partire dalla fine degli anni Ottanta, gli squilibri di finanza pubblica, che cominciavano a manifestarsi in alcuni Paesi, e il processo di costituzione di una unione monetaria in Europa hanno portato al centro del dibattito sulle procedure di bilancio il tema del rafforzamento della disciplina fiscale e dell’individuazione degli strumenti appropriati con i quali conseguirla. L’introduzione di regole costituzionali in materia di finanza pubblica, l’applicazione di procedure automatiche per il controllo dei disavanzi e l’individuazione di obiettivi sui saldi di bilancio e sul debito a livello sovranazionale costituiscono i principali strumenti discussi o implementati come fattori di garanzia di scelte responsabili in materia di finanza pubblica. Norme costituzionali e procedure automatiche (quali quelle contemplate a metà degli anni Ottanta negli Stati Uniti dalla legge Gramm-Rudman-Hollings, che prevedeva un percorso di rientro dagli squilibri di finanza pubblica caratterizzato da progressive riduzioni del deficit federale, fino a un suo azzeramento su un orizzonte temporale definito) vengono considerate come forme di limitazione della discrezionalità politica che potrebbe generare risultati non desiderabili per l’economia nel suo complesso. L’avversione nei confronti della discrezionalità e la preferenza per le regole trovano il loro fondamento teorico nella letteratura sull’incoerenza temporale delle politiche ottimali. L’individuazione di vincoli sovranazionali all’autonomia nazionale in materia fiscale è riconducibile alle esternalità negative generate da politiche di bilancio scarsamente disciplinate nei Paesi membri di una Unione che condivide una politica monetaria unica.
Senza entrare nella discussione teorica su come qualificare il grado di disciplina di una determinata politica di bilancio, nel Trattato di Maastricht approvato nel 1992 il concetto di finanze pubbliche sane è stato incarnato dall’individuazione di un limite massimo al disavanzo complessivo (3% del PIL) e al debito pubblico (60% del PIL). L’obiettivo è stato reso ancora più ambizioso con il Patto di stabilità e crescita, che nel 1997 ha da un lato individuato la procedura con cui imporre una correzione ai Paesi che siano incorsi in disavanzi eccessivi, dall’altro ha richiesto che il bilancio sia in pareggio o in surplus nel medio periodo. Il mancato adeguamento da parte di Francia e Germania alla procedura formale prevista dal Patto in caso di disavanzi eccessivi ha portato a una revisione ulteriore del Patto stesso nel 2005, nella direzione di una maggiore flessibilità e considerazione delle condizioni delle economie locali.
L’esperienza di controllo delle finanze pubbliche nazionali, evidenziata dalle vicende che hanno caratterizzato l’introduzione del Trattato di Maastricht e la sua implementazione tramite il Patto di stabilità e crescita, sottolinea l’importanza della reciproca influenza tra andamento dell’economia e risultati di bilancio. I saldi di bilancio sono grandezze endogene il cui valore dipende strettamente dal quadro macroeconomico. Questo rappresenta il condizionamento principale e ineliminabile cui è subordinato il ricorso a regole rigide quale strumento di controllo degli aggregati di finanza pubblica. In quest’ottica possiamo leggere la difficoltà di individuazione di regole costituzionali come strumento di disciplina delle politiche di bilancio. La nostra Costituzione è forse l’unica che prescriva, all’art. 81, un obbligo di copertura che, se rigidamente interpretato, vieta l’indebitamento per le spese di parte corrente. Più che imporre un limite quantitativo prestabilito, la Costituzione suggerisce una metodologia decisionale che dovrebbe garantire un’assunzione di responsabilità da parte del decisore in materia di politica di bilancio.
La semplicità dell’individuazione di un limite numerico a un saldo di bilancio si è accompagnata, nei fatti, all’individuazione di condizioni cui subordinare il rispetto del vincolo. Queste condizioni riguardano sia il contesto economico in cui l’obiettivo deve essere raggiunto, sia le voci di entrata e spesa su cui è maggiormente opportuno operare, sia le componenti di spesa che dovrebbero sfuggire alle limitazioni, quali, per es., le spese in conto capitale. Il pareggio di bilancio sarebbe richiesto per le spese in conto corrente, mentre l’indebitamento sarebbe ammesso per le spese per investimento (la golden rule come adottata nel Regno Unito). Più in generale, non è corretto considerare la politica di bilancio come un fatto puramente finanziario interamente governabile con la selezione di obiettivi numerici: è piuttosto l’espressione di scelte sull’assetto istituzionale che si vuole dare all’intervento dello Stato nell’economia.
Questa considerazione diventa ancora più stringente quando, invece di considerare vincoli sui saldi di bilancio, si considerino vincoli alternativamente sulla spesa pubblica o sulla pressione fiscale. Un limite sul livello della spesa pubblica (o della sua crescita, come sperimentato nel Regno Unito e, con qualche tentativo di emulazione, nel nostro Paese) genera distorsioni nella sua composizione, secondo il diverso grado di comprimibilità o rigidità delle diverse voci. Le spese che hanno destinazione individuale diretta (le pensioni, gli ammortizzatori sociali) o la spesa per interessi dipendono dall’acquisizione di un diritto soggettivo. Anche escludendo, necessariamente, queste componenti dal vincolo alla crescita, un limite così strutturato, soprattutto se omogeneo tra varie categorie di spesa, impone una rinuncia a definire le priorità tra i diversi interventi.
Dalla esposizione risulta evidente che ogni tentativo di definizione del ruolo dello Stato nel contesto attuale presenta ineliminabili elementi d’indeterminatezza. La lettura del funzionamento del sistema economico, visto nella sua capacità autonoma di produrre risultati ottimali, predetermina in buona misura le indicazioni istituzionali e le proposte di politica economica.
Estraendo alcuni spunti interpretativi dalla nostra analisi, possono tuttavia essere colti alcuni dubbi o alcune incertezze, frutto dell’esperienza dell’ultimo decennio, che rendono meno assertive le tesi liberiste progressivamente accumulatesi nel corso dell’ultimo quarto del secolo scorso.
Il funzionamento dei meccanismi assicurativi privati, visti come sostitutivi dei sistemi pubblici di protezione sociale, lasciano aperti importanti problemi di accesso e di garanzia contro rischi individualmente incontrollabili, non solo per i ceti più poveri, ma anche per le classi medie. Sotto questo aspetto il ruolo dello Stato non sembra essere significativamente circoscrivibile: lo testimoniano il dibattito negli Stati Uniti sull’introduzione di un sistema sanitario obbligatorio e la mancata realizzazione di progetti di delimitazione del sistema pensionistico pubblico. Nella sfera sociale, il ruolo dello Stato richiede un controllo finanziario ed economico della dinamica delle prestazioni alla luce delle prevedibili tendenze demografiche, ma in un contesto di salvaguardia sostanziale dei principi ispiratori dello Stato sociale.
Le tesi concorrenziali a sostegno delle politiche di privatizzazione hanno portato molto spesso alla formazione di monopoli privati, con la creazione, in alcuni casi, di imprese operanti su scala sovranazionale. Oggi, in settori cruciali dell’attività economica, il ruolo dello Stato è certamente diverso rispetto al passato, ma non per questo meno pregnante. È ragionevole affermare che si è alla ricerca di nuovi equilibri.
Analogamente, la flessibilizzazione delle regole del mercato del lavoro, con l’implicita assimilazione del lavoro a una normale merce, lungi dal produrre assetti armoniosi, ha concorso a innescare importanti processi di concentrazione nella distribuzione del reddito. Conseguentemente, stanno emergendo importanti problemi di coesione sociale, con l’effetto di rendere meno accettabili nell’opinione comune i processi di integrazione economica su scala internazionale, che sono stati una caratteristica importante e positiva della storia economica degli ultimi decenni. Anche in questo caso non sembra che il ruolo dello Stato, nella sua funzione regolatoria, possa essere marginalizzato nei termini previsti solo alcuni anni fa.
Infine, un fattore potentemente innovatore, all’interno dei singoli Stati e nei rapporti internazionali, è costituito dal ridimensionamento della sovranità nazionale in materia tributaria e in materia di individuazione degli obiettivi generali delle politiche di bilancio. Anche se qualcuno considera la perdita della potestà impositiva nazionale sui redditi di capitale un intelligente strumento per indurre la riduzione della spesa pubblica, è certo che un processo così oscuro o così poco trasparente corre il rischio di compromettere gli equilibri sociali fin qui accettati. Allo stesso modo, la fissazione di saldi obiettivo a livello comunitario se, in linea di principio, contribuisce a definire una gestione più disciplinata delle politiche fiscali, si accompagna in realtà con problemi di applicazione effettiva delle norme che dovrebbero regolare la buona gestione della finanza pubblica in tutti i casi in cui l’evoluzione macroeconomica non risultasse favorevole. La storia della nostra finanza pubblica negli anni Settanta per molti versi insegna. Anche in questo caso si può, o si deve, individuare un ruolo dello Stato innovativo rispetto al passato, in quanto necessariamente collocato in un contesto sovranazionale.
Nelle società sviluppate, ha scritto Ada Zanardo, i sistemi fiscali, cioè l’insieme dei prelievi obbligatori imposti dai diversi livelli di governo ai propri cittadini-contribuenti, perseguono una molteplicità di obiettivi. La principale (e, sino a qualche tempo fa, unica) funzione delle imposte è quella di assicurare ai governi le risorse necessarie per finanziare le spese pubbliche, quale alternativa preferibile ad altri strumenti socialmente ed economicamente più costosi, come l’alienazione dei cespiti patrimoniali, l’indebitamento, l’emissione di moneta. Inoltre, i sistemi fiscali affiancano i programmi di spesa pubblica (v. stato sociale) e gli interventi di regolamentazione (v. privatizzazione e regolamentazione) per perseguire direttamente gli obiettivi delle politiche pubbliche in ambito economico, che, secondo la tradizionale classificazione musgraviana, possono essere ricondotti a tre aree fondamentali: stabilizzazione, allocazione e ridistribuzione. In questo senso, il livello complessivo delle imposte, la loro composizione, nonché il disegno dei singoli strumenti fiscali, possono essere innanzitutto determinati dall’obiettivo di stabilizzare il livello dell’occupazione, dei prezzi o della bilancia dei pagamenti di un paese. Mediante le imposte, i governi cercano poi di modificare la distribuzione originaria del reddito e della ricchezza tra individui/famiglie o tra fattori produttivi quando sia ritenuta non coerente con i principî equitativi prevalenti (v. reddito, distribuzione del). Infine, il disegno dei sistemi fiscali dipende dagli effetti allocativi delle imposte: in generale, quasi tutte hanno un qualche effetto sull’allocazione delle risorse e producono un costo economico per la collettività. Ne consegue che un obiettivo della tassazione è quello di ridurre al minimo questi costi, ma talvolta anche quello di favorire certi comportamenti ritenuti desiderabili da parte dei soggetti economici (come la formazione del risparmio o l’attivazione di investimenti a sostegno della crescita), o di disincentivarne altri (quali la produzione di esternalità negative, come l’inquinamento, o consumi negativamente valutati dalla collettività, come l’alcolismo).
La molteplicità degli obiettivi di cui un sistema fiscale viene caricato e il suo essere al centro di processi decisionali complessi, in cui considerazioni economiche si confrontano con valori politici ed esigenze sociali, rende relativamente difficile evidenziare quali dovrebbero essere, nella prospettiva di un economista, i requisiti di una struttura fiscale desiderabile. Richard A. Musgrave così li sintetizza: “la distribuzione del carico fiscale dovrebbe essere equa […]; le imposte dovrebbero essere scelte in modo da minimizzare le interferenze con le decisioni economiche in mercati che, in assenza di tassazione, sarebbero efficienti […]; dove si ricorre alla politica tributaria per perseguire altri obiettivi, per esempio garantire adeguati incentivi agli investimenti, ciò dovrebbe essere fatto in modo tale da minimizzare le interferenze con le finalità equitative; la struttura delle imposte dovrebbe facilitare l’utilizzo della politica fiscale per gli obiettivi di stabilizzazione e crescita economica; il sistema fiscale dovrebbe consentire una gestione delle imposte imparziale, obiettiva e comprensibile per il contribuente; i costi di amministrazione e di adempimento dovrebbero essere il più possibile contenuti compatibilmente con gli altri obiettivi” (v. Musgrave e Musgrave, 19844, p. 225). Tuttavia, chi si accinga a utilizzare questi (e altri) criteri per valutare l’ottimalità di un sistema fiscale si troverà spesso di fronte a obiettivi tra loro almeno parzialmente confliggenti, con la conseguente necessità di ripiegare su soluzioni di compromesso. Così l’equità può richiedere complessità amministrativa e può interferire con la neutralità allocativa, oppure un uso della tassazione quale incentivo per comportamenti desiderabili può indebolire le finalità ridistributive.
Il rilievo attribuito ai diversi obiettivi di politica fiscale – e conseguentemente la loro priorità nella ricerca delle soluzioni ottimali per i sistemi fiscali – si è evoluto nel tempo con lo sviluppo della riflessione teorica sulle modalità dell’intervento pubblico e con il mutare delle caratteristiche strutturali dei sistemi economici su cui la fiscalità interviene. A partire da queste considerazioni, ripercorreremo l’evoluzione dei sistemi fiscali nei maggiori paesi industrializzati dagli anni ottanta al presente, evidenziando le tendenze fondamentali seguite nei processi di riforma, le sottostanti ispirazioni derivanti dalla letteratura economica in tema di tassazione, nonché le maggiori questioni aperte per il futuro.
Una valutazione di sintesi delle recenti tendenze registrate dai sistemi fiscali può essere ricavata osservando innanzitutto l’andamento della pressione fiscale, cioè il rapporto tra il totale dei prelievi fiscali (imposte, tasse e contributi sociali) e il PIL (Prodotto Interno Lordo). Pur trattandosi di un indicatore assai approssimativo – il cui valore dipende tra l’altro da specificità istituzionali quali, ad esempio, la previsione o meno di sottoporre a tassazione i trasferimenti pubblici a favore delle famiglie, o la combinazione tra agevolazioni fiscali e sussidi diretti scelta dal governo per attuare la propria politica ridistributiva (v. OECD, Tax burdens…, 2000) – la pressione fiscale offre alcune indicazioni fondamentali circa la dimensione del carico fiscale complessivo sull’economia.
A partire dall’inizio degli anni ottanta, l’insieme dei paesi dell’area OCSE (Organizzazione per la Cooperazione e lo Sviluppo Economico, od OECD, Organisation for Economic Co-operation and Development) ha registrato un consistente e sostanzialmente ininterrotto incremento della pressione fiscale (circa 5 punti percentuali). Questa evoluzione è stata ancor più marcata nell’aggregato dell’Europa dei 15 che, oltretutto, già all’inizio degli anni ottanta segnava una pressione fiscale di quasi 5 punti percentuali superiore a quella dell’area OCSE. Certamente la crescita del prelievo fiscale ha avuto come causa fondamentale l’ampliamento, in termini di copertura e di generosità delle prestazioni, dei sistemi di welfare nazionali (già a partire dalla metà degli anni sessanta) e le conseguenti necessità di finanziamento soddisfatte soprattutto mediante prelievi sul lavoro (imposta sul reddito personale e contributi sociali). Gli sforzi di consolidamento fiscale richiesti dal percorso verso la moneta unica hanno poi esercitato, limitatamente ai paesi dell’Unione Europea (UE) e a partire dagli anni novanta, ulteriori pressioni verso l’alto sul prelievo fiscale. La spinta prevalente nella crescita del livello della tassazione, tuttavia, nell’ultimo decennio è stata assicurata non più dalle imposte sul reddito personale e dai contributi sociali, ma dalle imposte sulle società e, in misura minore, dalle imposte indirette.
Il periodo più recente mostra qualche debole segno di inversione di tendenza. Già a partire dalla seconda metà degli anni novanta molti paesi hanno adottato politiche di riduzione delle aliquote fiscali delle imposte sui redditi personali e sui profitti societari, politiche che tuttavia non si sono tradotte in una significativa decelerazione nella crescita del prelievo a causa della sostenuta crescita economica. Solo la recente congiuntura negativa ha frenato la corsa del prelievo fiscale, che ha registrato tra il 2000 e il 2001 una contrazione in gran parte dei paesi dell’OCSE.
Questi andamenti generali sottendono tuttavia situazioni fortemente differenziate a livello nazionale, che riflettono i diversi atteggiamenti riguardo all’ampiezza dell’intervento pubblico, le diverse caratteristiche strutturali delle economie e le specificità delle politiche tributarie condotte nei vari paesi. Negli Stati Uniti il prelievo complessivo si è mantenuto pressoché invariato ai livelli assai bassi di 20 anni fa (25% contro 32% della media OCSE), con qualche segno di crescita più marcata soltanto nell’ultimo scorcio degli anni novanta. In Giappone la pressione fiscale è cresciuta negli anni ottanta a partire da livelli ancor più bassi di quelli statunitensi, per poi contrarsi nuovamente nel decennio successivo in conseguenza delle politiche di detassazione adottate dal governo per sostenere il rilancio dell’economia nazionale. L’Italia, infine, tra i paesi dell’OCSE (insieme al gruppo dei paesi mediterranei, Grecia, Turchia, Spagna e Portogallo) è quello che ha sperimentato nel corso del ventennio 1980-2000 la più rapida crescita della pressione fiscale (quasi 12 punti percentuali), determinata soprattutto dalle esigenze di consolidamento fiscale imposte dalla scelta dell’integrazione europea.
Anche la composizione del prelievo complessivo per grandi tipologie di imposte è in qualche misura mutata nel corso del periodo. Nell’area OCSE, la quota delle imposte personali sul reddito, dopo essere cresciuta fortemente fino a metà degli anni settanta, è andata via via contraendosi, mentre è aumentato il peso relativo delle imposte sulle imprese e dei contributi sociali. Stabile è rimasta invece la quota attribuibile alle imposte sui consumi. L’Europa dei 15 registra analoghi andamenti, ma la forte dipendenza dai contributi sociali ha condotto a una riduzione del loro peso negli anni più recenti.
Le (poche) tendenze comuni evidenziate dai sistemi fiscali nazionali negli ultimi vent’anni non comportano necessariamente una convergenza di tali sistemi verso una comune struttura fiscale in termini di livello e composizione del prelievo. Ciò che infatti rileva per la convergenza tra paesi non è soltanto l’emergere di trends comuni, ma anche i differenti punti di partenza e le diverse velocità di evoluzione delle singole forme di prelievo. In questo senso, la crescente globalizzazione dei mercati e le pressioni della Commissione Europea per l’armonizzazione dei sistemi fiscali quale requisito essenziale per il rafforzamento del mercato unico (in particolare per il libero movimento di persone, merci e capitali) hanno effettivamente portato, a partire dagli anni ottanta, a una riduzione della dispersione dei livelli di pressione fiscale complessiva che caratterizzano i paesi europei (v. Messere, 2000). Pur in un quadro di generale aumento della pressione fiscale, questa tendenza alla convergenza trova in gran parte spiegazione nella vistosa crescita del carico fiscale registrata in questi anni dai paesi europei dell’area mediterranea (Italia, Spagna, Grecia), che ha fortemente avvicinato questi sistemi fiscali ai modelli a elevata tassazione prevalenti nell’Europa settentrionale.
A questa tendenza alla convergenza tra i vari paesi non corrisponde tuttavia un’analoga evoluzione della composizione del prelievo per tipologie di imposte. Tra i paesi dell’OCSE la dispersione delle quote delle imposte sui redditi personali sul totale del gettito sembra essere leggermente aumentata (ma diminuita tra i paesi dell’UE), così come non vi sono chiare evidenze di una riduzione delle distan-ze tra paesi nel peso relativo della tassazione dei consumi e dei contributi sociali. Al contrario, sotto la spinta della crescente mobilità internazionale delle società, che impone ai sistemi nazionali di uniformare i livelli di prelievo, dalla seconda metà degli anni ottanta si è assistito a una progressiva convergenza tra Stati Uniti (a partire da valori più elevati) e paesi europei (tra i quali anche l’Italia, a partire da valori più bassi), nella quota relativa della tassazione societaria sul prelievo complessivo, verso valori attorno al 9%.
Nel complesso, i sistemi fiscali nazionali presentano ancor oggi una grande varietà di configurazioni per livello e soprattutto per composizione del prelievo. Molti paesi dell’UE (Francia, Germania, Italia) si affidano maggiormente, rispetto alla media OCSE, ai contributi sociali e meno alle imposte personali sul reddito e alle imposte sui consumi. Al contrario, gli Stati Uniti fanno ricorso più alle imposte personali sul reddito e alle imposte patrimoniali che ai contributi sociali e alle imposte sui consumi. Il Giappone segue l’esempio statunitense per quanto riguarda le basse imposte sui consumi, ma si distingue anche per imposte personali sul reddito poco gravose, compensando i gettiti richiesti con contributi sociali e imposte sulle imprese relativamente più onerose rispetto alla media OCSE.
Va da sé che anche nell’ambito dei paesi dell’UE la pressione della concorrenza fiscale e gli sforzi di armonizzazione delle strutture di prelievo esercitati dalla Commissione Europea non sono stati finora in grado di realizzare le fondamenta di un ‘sistema fiscale europeo’ coerente con il funzionamento efficiente del mercato unico. In particolare, tra i sistemi fiscali europei sono ancor oggi chiaramente identificabili quattro gruppi distinti già evidenziati all’inizio degli anni ottanta (v. Bernardi, 2003): i paesi nordici, dove la pressione fiscale è elevata e sostenuta soprattutto dalle imposte sui redditi; i paesi dell’area renana (Francia e Germania), caratterizzati da un elevato prelievo fiscale che ricorre in misura peculiare ai contributi sociali; i paesi anglosassoni, dove il carico fiscale complessivo è al di sotto della media europea e particolarmente limitato è il ricorso ai contributi sociali; infine, il gruppo dei paesi mediterranei, che dopo la rilevantissima crescita della pressione fiscale sperimentata negli ultimi trent’anni già sopra richiamata, si sono avvicinati al modello renano, pur mantenendo un peso dei contributi sociali e della tassazione indiretta relativamente più contenuto.
I sistemi fiscali nazionali differiscono profondamente anche nella loro articolazione tra i diversi livelli di governo. Anche sotto questo profilo non sembra vada affermandosi un modello comune di decentramento fiscale né tra gli Stati federali né tra quelli unitari. Da un lato, a dispetto delle pressioni politiche per un maggiore decentramento, nel corso degli ultimi due decenni non si è assistito nella generalità dei paesi dell’OCSE a una significativa riattribuzione di risorse fiscali dal centro a favore dei governi subnazionali (un’eccezione rilevante è rappresentata, a partire dall’inizio dagli anni novanta, proprio dall’Italia). Dall’altro, le differenze tra paesi erano e permangono estremamente ampie, anche se in quelli a costituzione federale la quota di entrate fiscali attribuite ai governi subnazionali è in generale maggiore di quella che si registra tra i paesi unitari. Non mancano peraltro casi esattamente opposti, come il basso grado di decentramento dei poteri impositivi in Australia (Stato federale) rispetto a quello realizzato nei paesi scandinavi (Stati unitari).
Le statistiche consentono tuttavia di cogliere soltanto gli aspetti più generali dei processi di devoluzione fiscale in atto: non misurano l’effettivo grado di autonomia fiscale a livello decentrato, che dipende dal reale potere di determinazione e di amministrazione delle imposte attribuito ai governi locali (v. OECD, Taxing powers…, 1999). In molti paesi un’elevata quota di entrate fiscali assegnate ai governi subnazionali è infatti assicurata da compartecipazioni a tributi erariali su cui sono gli Stati centrali a esercitare pieno controllo.
Gli indicatori sintetici esaminati nel capitolo precedente permettono di cogliere solo parzialmente la complessità dell’evoluzione recente dei sistemi fiscali. Al di sotto delle tendenze quantitative, nei due ultimi decenni i sistemi fiscali dei maggiori paesi sono stati investiti da processi di riforma talvolta radicali e innovativi, in altri casi di mero aggiustamento rispetto ai mutamenti della struttura economica. Le scelte di politica tributaria che hanno ispirato queste riforme e gli elementi strutturali esterni che ne hanno sollecitato l’adozione e condizionato i risultati sono stati molteplici e spesso tra loro confliggenti. Possiamo identificare almeno due fondamentali fattori di cambiamento. Innanzitutto i processi di globalizzazione, di integrazione internazionale dei mercati e di liberalizzazione valutaria, che hanno favorito una maggiore mobilità dei fattori produttivi e delle merci con connessi guadagni in termini di allocazione efficiente delle risorse. Nello stesso tempo, tuttavia, tali processi hanno incentivato i singoli paesi a utilizzare in modo strategico e non coordinato le proprie variabili fiscali attraverso la continua e generalizzata riduzione delle aliquote sui redditi dotati di elevata mobilità internazionale, attivando in tal modo forme di concorrenza fiscale dannosa tra paesi (v. Keen, 1999; v. Wilson, 1999) che hanno effetti negativi sul benessere della collettività nel suo complesso e impongono adeguate forme di coordinamento a livello internazionale.
Un secondo fattore di cambiamento è stata, a partire dalla metà degli anni settanta, la priorità attribuita nel dibattito politico e teorico agli obiettivi di efficienza, neutralità e semplificazione dei sistemi tributari rispetto a quelli di equità e ridistribuzione dei redditi fino a quel momento prevalenti. Questo ribaltamento di priorità è collegato innanzitutto al rafforzamento, nell’ambito del dibattito accademico, delle posizioni della nuova macroeconomia classica (in particolare di Robert E. Lucas e Thomas J. Sargent) con l’accento posto sul ruolo dell’offerta aggregata, e alla contemporanea difficoltà delle tradizionali politiche di controllo della domanda aggregata di ispirazione keynesiana nel risollevare le economie dalla stagflazione (inflazione accoppiata a depressione nei tassi di crescita economica) prevalente tra la fine degli anni settanta e l’inizio del decennio successivo. La necessità di disegnare una struttura fiscale più favorevole alla crescita economica si è poi riproposta con forza in tempi più recenti, con riferimento soprattutto ai sistemi di tassazione europei: l’insoddisfacente performance delle economie europee negli anni novanta rispetto a quella registrata negli Stati Uniti è stata in parte ricondotta ai modi di operare dei sistemi fiscali europei e, nello specifico, alla crescita del carico fiscale complessivo insieme con le forti interferenze prodotte sulla formazione del risparmio, sulle decisioni di investimento e sull’offerta di lavoro (v. Leibfritz e altri, 1997). L’esigenza di una maggiore neutralità nel sistema tributario è stata tuttavia interpretata anche nel senso di costruire strutture fiscali più robuste per contrastare i fenomeni di elusione fiscale, soprattutto nell’ambito della tassazione delle attività finanziarie e dei redditi di impresa. Imprese e investitori professionali pongono in essere operazioni di arbitraggio per sfruttare i trattamenti fiscali differenziati previsti per attività o redditi di natura analoga, con conseguenti costi per l’erario in termini di mancato gettito e per la collettività più in generale in termini di effetti ridistributivi indesiderati e alterazioni delle condizioni di concorrenza. Da qui l’esigenza di disegnare sistemi fiscali più generali e omogenei al fine di contrastare le pratiche elusive sempre più diffuse a causa della sofisticazione dei mercati dei capitali e della crescente integrazione internazionale dei mercati.
Globalizzazione dei mercati e richieste di maggiore neutralità della tassazione si sono poi combinate nell’esperienza recente dei sistemi tributari europei con due ulteriori fattori, in parte contrastanti con quelli precedenti. Da un lato, il percorso di consolidamento fiscale imposto per l’adesione alla moneta unica prima dal Trattato di Maastricht e poi dal Patto di stabilità e crescita hanno richiesto e continueranno a richiedere nel futuro un’elevata pressione fiscale, stante la restrittività delle regole fiscali europee e le difficoltà strutturali di soddisfarle mediante il contenimento della spesa sociale. Dall’altro lato, le spinte verso il federalismo fiscale hanno imposto – e ancor più imporranno nel futuro – un ridisegno dei sistemi fiscali coerente con le nuove esigenze di finanziamento dei diversi livelli di governo. E ciò in relazione sia alle riforme già attuate in molti paesi negli anni novanta, volte a rafforzare le competenze dei governi locali, sia alle riflessioni in atto a livello istituzionale e teorico sull’opportunità di una più generale riattribuzione delle funzioni pubbliche tra Comunità Europea, Stati-nazione e governi locali sotto l’influsso congiunto della crescente integrazione internazionale e della valorizzazione delle preferenze locali (v. European Commission, 1993; v. Bertola e altri, 2000; v. Tabellini, 2002).
L’impatto di questi fattori generali di cambiamento sulle singole tipologie di prelievo è stato tuttavia assai differenziato in termini di portata degli effetti esercitati e di ampiezza delle riforme adottate. I paragrafi successivi saranno dedicati all’analisi delle maggiori macrocategorie di imposte.
a) L’imposta personale sul reddito
Fino alla metà degli anni settanta sia tra policy makers (si veda il noto rapporto della Canadian Royal Commission on Taxation del 1966), sia tra gli osservatori accademici (ad esempio Richard Goode, Joseph Pechman e il già citato Musgrave) era prevalente l’opinione che la modalità più equa di tassazione consistesse nell’affidarsi a un’imposta progressiva sul reddito personale su base onnicomprensiva, cioè definita in termini di incremento delle potenzialità di spesa del contribuente nel periodo di riferimento secondo la tradizionale definizione di Robert M. Haig e Henry Simons. Il fatto che un’unica imposta progressiva sia applicata alla somma di tutti i redditi prodotti, qualunque sia la loro fonte, comporta tra l’altro, per quanto riguarda la disponibilità di redditi prodotti all’estero, l’applicazione del principio della residenza, cioè della riconduzione di tali redditi, qualunque sia il paese in cui siano stati prodotti, al sistema fiscale del paese di residenza del loro percettore (tassazione secondo il worldwide system; v. sotto, § c).
A partire da quegli anni, tuttavia, intorno al modello della tassazione progressiva sul reddito onnicomprensivo cominciavano ad addensarsi insoddisfazioni e critiche (v. Cnossen e Bird, 1990). Sul piano empirico, le difficoltà applicative del concetto di reddito onnicomprensivo avevano a che fare con distorsioni economiche, complessità amministrative, iniquità orizzontali (ad esempio, in relazione alla proliferazione dei regimi speciali e alla tassazione delle plusvalenze realizzate al posto di quelle maturate), insieme con l’accentuata progressività che, in tempi di forte stagflazione, erodeva pesantemente i redditi reali. Sul piano teorico, gli esponenti della supply side economics sottolineavano come la progressività dell’imposta personale indebolisse gli incentivi economici all’offerta dei fattori produttivi, con gravi effetti negativi sulla crescita economica. In aggiunta, molti osservatori, riprendendo un filone di pensiero che si rifaceva a Nicholas Kaldor e ancor prima a Thomas Hobbes, evidenziavano i meriti della tassazione sul reddito-consumo (o reddito-spesa) rispetto a quella sul reddito onnicomprensivo, in quanto la prima, esentando il risparmio, avrebbe consentito di evitare la ‘doppia tassazione del risparmio’ o quanto meno avrebbe ridotto le esistenti distorsioni fiscali tra differenti forme di risparmio, alcune fiscalmente agevolate e altre no.
La conclusione di questo dibattito fu segnata nel 1986 dall’adozione negli Stati Uniti della riforma promossa da Ronald Reagan. Al centro della riforma si poneva una radicale revisione della struttura degli scaglioni e delle corrispondenti aliquote marginali. La nuova imposta personale sui redditi prevedeva infatti una riduzione del numero degli scaglioni, una flessione generalizzata delle aliquote marginali accompagnata da un appiattimento della curva di progressività realizzato mediante un taglio deciso all’aliquota marginale sullo scaglione più elevato (ben 22 punti percentuali). Sotto il profilo dell’equità, la compressione delle aliquote marginali veniva almeno parzialmente compensata da un innalzamento dei limiti di reddito esente da tassazione, mentre, per evitare cadute di gettito, la riforma affiancava alla diminuzione delle aliquote misure di allargamento della base imponibile realizzate attraverso la cancellazione di esenzioni e regimi speciali (veniva, ad esempio, fortemente aggravato il prelievo sulle plusvalenze realizzate).
Pur nell’ambito di valutazioni non sempre univoche, gli effetti della riforma Reagan sembrano essere stati relativamente modesti. In particolare, sul piano dell’efficienza, la risposta in termini di incremento dell’offerta complessiva di lavoro e risparmio è stata limitata, anche se è incerto se tale risultato sia il riflesso di una bassa elasticità di sostituzione rispetto al livello assoluto del prelievo (come evidenziato, per esempio, da Leibfritz e altri, 1997) o piuttosto del fatto che la riforma non è stata in grado di indurre una riduzione sufficientemente ampia dei prezzi relativi rilevanti (v. Auerbach e Slemrod, 1997).
La riforma americana del 1986, e gli interventi che in molti paesi (Australia, Austria, Canada, Italia, Olanda) negli anni immediatamente successivi si ispirarono alla formula ‘riduzione delle aliquote più elevate-allargamento della base imponibile-semplificazione degli scaglioni’, hanno certamente rappresentato un momento di indebolimento del modello della tassazione progressiva sul reddito onnicomprensivo (v. Slemrod, 1990). Una rottura ben più radicale con quel paradigma è stata invece segnata dalle riforme che portarono in alcuni paesi scandinavi (in ordine di tempo, Danimarca, Svezia, Norvegia, Finlandia) tra il 1987 e il 1993 all’introduzione di forme di Dual Income Taxation (DIT: v. Sørensen, 1994; v. Cnossen, 1999). Pur nella diversità delle applicazioni concrete, il modello della DIT prevede l’applicazione di un’imposta proporzionale uniforme (flat rate tax) su tutte le forme di redditi da capitali (interessi, dividendi, plusvalenze), mentre i redditi derivanti da altre fonti (essenzialmente redditi da lavoro) rimangono assoggettati all’imposta progressiva. In generale, l’aliquota unica di prelievo sui redditi da capitale è posta pari all’aliquota base della tassazione progressiva.
La motivazione fondamentale dell’adozione di forme di tassazione duale del reddito sta nel fatto che si tenta in tal modo di conservare una qualche forma di prelievo sui redditi da capitale, pur in un quadro di elevata e crescente mobilità internazionale dei capitali stessi, e insieme di raggiungere l’obiettivo di assicurare una maggiore neutralità nel trattamento fiscale dei redditi da capitale in generale, contrastando così anche diffuse pratiche di elusione fiscale rese possibili dai trattamenti differenziati delle varie attività finanziarie. Su un piano più teorico, la DIT sarebbe giustificata sia da una maggiore equità, in quanto detassando i rendimenti dei redditi da capitale ci si avvicina al concetto di reddito-consumo e quindi si evita la doppia tassazione del risparmio, sia da una maggiore efficienza, perché tassa maggiormente il lavoro che è caratterizzato da una offerta più rigida rispetto al proprio prezzo di quanto non sia quella del capitale, in coerenza con quanto prescritto dalla teoria della tassazione ottimale. D’altra parte, la DIT comporta problemi di iniquità orizzontale in quanto, abbandonando il riferimento al criterio della capacità contributiva e costruendo di fatto un insieme di imposte reali con aliquote differenziate, riserva trattamenti fiscali differenziati a contribuenti con eguale reddito complessivo ma con differente composizione delle fonti tra lavoro e capitale. Inoltre, incoraggia operazioni di elusione fiscale, in particolare da parte delle piccole imprese e dei lavoratori autonomi, per i quali la distinzione tra redditi da lavoro e da capitale non è sempre immediata da tracciare (v. Strand, 1999; v. Van den Noord, 2000).
Pur non adottando un sistema puro di tassazione duale, molti paesi dell’area UE (per esempio Austria, Francia, Germania, Grecia, Italia e Spagna) hanno approvato negli anni recenti riforme fiscali che prevedono per interessi e plusvalenze forme di tassazione cedolare ad aliquote uniformi (pur non estendendo questo trattamento agevolato a tutti i redditi da capitale, come nel caso della DIT nordica), generalmente inferiori alle aliquote marginali che gravano sui redditi da lavoro nell’ambito dell’imposta personale e progressiva. L’orientamento verso imposte basse e proporzionali sui redditi da capitale (anche se non estese necessariamente a tutte le forme di rendimento del capitale, come invece è il caso della DIT nordica) riflette le preoccupazioni dei sistemi nazionali tanto di tutelare la propria competitività su un mercato dei capitali internazionale sempre più integrato, anche in relazione all’avvento della moneta unica, quanto di ridurre le possibilità di manovre elusive che traggono alimento proprio dalla differenziazione dei trattamenti fiscali.
Queste riforme, e le pressioni a esse sottostanti, concorrono a spiegare una delle linee evolutive che più chiaramente emerge dall’esperienza recente dei sistemi fiscali europei: la forte crescita della tassazione sul lavoro rispetto a quella su fattori più mobili, come il capitale. Nei paesi dell’UE, tra il 1970 e il 1999, l’aliquota media effettiva (ex post) sul lavoro è aumentata del 47% (circa 12 punti di aliquota), mentre quella corrispondente sul capitale soltanto del 24% (meno di 5 punti d’aliquota). Il risultato è che oggi, nella media UE, mentre il capitale sconta un prelievo medio effettivo del 24%, il lavoro è gravato da un’aliquota media effettiva pari a quasi il 38%, di circa 15 punti d’aliquota superiore a quella di Stati Uniti e Giappone (v. EUROSTAT, 2000; v. Cnossen, 2002; per i profili metodologici, v. Mendoza e altri, 1994; v. Martinez-Mongay, 2000). Anche se il calcolo delle aliquote effettive non è privo di problemi metodologici, non c’è dubbio che un livello di tassazione così elevato si rifletta sul funzionamento dei mercati del lavoro: nella misura in cui il prelievo sul lavoro viene traslato sul costo del lavoro a carico delle imprese, si generano incentivi alla sostituzione del lavoro (soprattutto quello a bassa specializzazione) con altri fattori produttivi o alla delocalizzazione delle produzioni in paesi a più basso costo del lavoro; nella misura in cui rimane a carico del salario, si scoraggia la ricerca di occupazione e lo sforzo lavorativo. Ciò ha indotto le organizzazioni internazionali (v., ad esempio, OECD, Implementing…, 1999) a raccomandare, e singoli paesi ad adottare a partire dalla seconda metà degli anni novanta, misure di taglio dei contributi sociali per incentivare la domanda di lavoro soprattutto nelle fasce di occupazione a più bassa specializzazione, interventi di traslazione del peso fiscale dal lavoro agli altri fattori produttivi (è il caso della sostituzione, in Italia, dei contributi sanitari con un’imposta ad ampia base imponibile denominata IRAP, Imposta Regionale sulle Attività Produttive) o alle attività fortemente inquinanti (il cosiddetto double dividend approach), crediti di imposta per rendere più attraente la partecipazione al lavoro delle donne e dei lavoratori poco specializzati.
b) La tassazione delle imprese
Integrazione dei mercati e richieste di maggiore neutralità nel prelievo fiscale hanno segnato l’evoluzione recente anche dei sistemi di tassazione delle imprese. La strategia ‘riduzione delle aliquote-allargamento della base imponibile’, già discussa a proposito dell’imposta personale sui redditi, è stata il segno distintivo anche delle riforme attuate a partire dalla metà degli anni ottanta in quasi tutti i paesi dell’OCSE sulla scia del Tax reform act statunitense. Sotto la pressione della competizione fiscale internazionale (v. OECD, 1991; v. Bretschger e Hettich, 2002; v. Devereux e altri, 2002), le aliquote legali (nazionali e locali) sui redditi societari sono state quasi ovunque nettamente ridotte (ma con l’Italia in controtendenza fino alla riforma del 1998), in molti paesi anche di più di 15 punti di aliquota (ad esempio, Francia, Germania, Olanda, Portogallo, Regno Unito); nella media dell’UE la caduta è stata dal 47% al 32% tra il 1980 e il 2003 (aliquota prevista sulla base della legislazione vigente: v. Gorter e de Mooij, 2001; v. Giannini, 2002). Benché le aliquote legali risultino ancor oggi in qualche misura differenziate tra i paesi dell’UE, l’evoluzione recente indica una tendenza alla convergenza verso una media europea attorno al 32%. Parallelamente, per evitare insostenibili cadute di gettito, le basi imponibili sono state ampliate mediante una grande varietà di interventi, tra cui innanzitutto la cancellazione di agevolazioni speciali, la previsione di regole di ammortamento e di valutazione delle scorte meno favorevoli, la riduzione di sgravi fiscali sugli investimenti.
Gli anni ottanta e novanta sono stati anche segnati dal dibattito, in ambito sia accademico che governativo, sulla non neutralità del modello tradizionale di tassazione societaria e sulle riforme, rimaste in parte solo allo stadio di proposta, volte a ridurre le distorsioni fiscali rispetto alle scelte delle imprese. In termini generali, in un approccio marginalista che pone esclusiva attenzione agli effetti che il sistema tributario esercita sui nuovi investimenti e non al livello di prelievo complessivo realizzato in capo all’impresa, due differenti modalità di tassazione neutrale sono concepibili. Da un lato, la cash flow tax che tassa i flussi di cassa senza deducibilità dei costi finanziari dell’investimento (qualunque sia la fonte), ma con immediata deducibilità dei costi sostenuti per l’acquisto dei beni strumentali (v. Meade Committee, 1978; v. Sinn, 1987); dall’altro lato, la tassazione dei profitti di impresa con deducibilità del costo del finanziamento (qualunque sia la fonte), ma con deducibilità delle spese di investimento limitata al solo vero ammortamento economico.
Pur essendo stata ampiamente dibattuta anche in termini operativi (Regno Unito, Irlanda, Svezia, Stati Uniti), la cash flow tax non ha mai trovato effettiva realizzazione. Al contrario, nei sistemi fiscali concreti la tassazione del reddito di impresa si applica generalmente secondo modalità che la rendono non neutrale rispetto alle scelte di finanziamento delle imprese. La deducibilità nella determinazione della base imponibile degli interessi passivi corrispondenti al finanziamento mediante capitale di debito (emissioni di obbligazioni o credito bancario), ma non del costo sostenuto in caso di finanziamento mediante capitale di rischio (emissioni azionarie o profitti ritenuti), genera un forte incentivo a favore del finanziamento con debito. E questa discriminazione si rafforza quando si consideri, accanto alla tassazione di impresa, anche la tassazione dei capitali a livello personale, che in generale riserva un trattamento fiscale più gravoso ai dividendi percepiti dal socio rispetto agli interessi attivi ricevuti dal prestatore di capitale di debito. Questa distorsione fiscale può spingere le imprese a sottocapitalizzarsi (il che le espone maggiormente al rischio dell’insolvenza, discrimina le nuove imprese che hanno maggiori difficoltà di accesso al credito, e può esacerbare, a livello macroeconomico, le fluttuazioni del ciclo) e incentiva pratiche elusive quali la thin capitalization (trasformazione degli utili di impresa in interessi passivi, in quanto tali deducibili ai fini della tassazione societaria, mediante l’emissione di obbligazioni sottoscritte dai soci stessi; il differenziale tra l’aliquota dell’imposta societaria sugli utili e quella dell’imposta personale sugli interessi attivi percepiti dai soci misura la convenienza dell’operazione elusiva).
Accanto alla discussione sulla concreta applicabilità della cash flow tax, il dibattito sulle possibili configurazioni di un’imposta societaria neutrale rispetto alle scelte di finanziamento delle imprese ha portato a una varietà di proposte (per una discussione, v. Cnossen, 1996). Qui se ne ricordano due. Da un lato, la tassazione secondo il sistema CBIT (Comprehensive Business Income Tax) proposto dal Tesoro americano (v. US Department of the Treasury, 1992), che consiste nel tassare l’intero flusso di reddito generato dall’investimento prima del pagamento di interessi passivi e/o di dividendi. Non è inoltre prevista alcuna tassazione di tali interessi o dividendi a livello personale per i soci o per i sottoscrittori del debito. Dall’altro, il modello di tassazione ACE (Allowance for Corporate Equity; v. IFS, 1991), che prevede la separazione, all’interno dei profitti di impresa, di due componenti: la prima rappresentata dalla remunerazione ordinaria del capitale proprio investito, che viene interamente dedotta e quindi totalmente esclusa dalla tassazione; la seconda, residuale rispetto al totale dei profitti, che invece assume natura di extra profitto o di rendita e che è assoggetta alla normale aliquota dell’imposta societaria. Benché il modello ACE nella sua configurazione pura non abbia trovato concreta attuazione, ha certamente influenzato l’adozione di forme di tassazione duale dei redditi di impresa in Italia tra il 1997 e il 2000 e in Austria a partire dal 2000.
Come detto, la discriminazione ai danni del finanziamento mediante ricorso a capitale proprio e a favore dell’indebitamento può derivare sia dalla tassazione degli utili in capo alla società, sia dall’esistenza di un trattamento differenziato dei profitti distribuiti e non distribuiti e degli interessi in sede di imposta personale. Perciò la neutralità delle scelte finanziarie e di investimento delle imprese richiede anche un sistema di prelievo omogeneo dei redditi finanziari ottenuti dagli individui che finanziano l’impresa. In particolare, per essere neutrale, un sistema fiscale che a livello di impresa ammetta la piena deducibilità dei soli interessi passivi, come è nel modello tradizionale, deve da un lato garantire che le imposte versate dalla società sugli utili distribuiti (dividendi) e non (plusvalenze) siano rimborsati al socio (cioè vi sia integrazione tra tassazione societaria e tassazione personale) e, dall’altro, assoggettare a un prelievo omogeneo a livello personale dividendi, plusvalenze e interessi.
Queste considerazioni richiamano uno degli aspetti più controversi nella discussione sui sistemi di imposizione societaria: quello della tassazione dei dividendi. Il punto centrale riguarda la questione se sia opportuno integrare e, in caso di risposta affermativa, secondo quali modalità, la tassazione societaria degli utili di impresa (che tassa indistintamente tutti i profitti) e la tassazione personale dei dividendi che colpisce nuovamente in capo al socio gli utili, al netto della tassazione societaria, che vengono distribuiti. L’idea che la società di capitali sia un soggetto distinto dai propri soci conduce a escludere l’opportunità di una qualche forma di integrazione tra i due livelli di tassazione: è il caso della doppia tassazione dei dividendi o classical system. Se si ritiene invece opportuno evitare il doppio prelievo sui dividendi, l’integrazione tra tassazione societaria e tassazione personale può essere realizzata riducendo o cancellando l’imposta personale sui dividendi ricevuti dal socio, oppure l’imposta societaria sui profitti distribuiti. La prima possibilità di integrazione può assumere modalità diverse. Da un lato si possono prevedere sgravi fiscali di vario tipo sulle imposte personali del socio (quali anche l’assoggettamento ad aliquote proporzionali e relativamente basse), il cui ammontare non è tuttavia direttamente connesso con l’importo dell’imposta societaria pagata a monte sui profitti distribuiti (shareholder dividend relief schemes). L’altra possibilità è quella di rendere il credito fiscale riconosciuto al socio sulla propria tassazione personale funzione diretta dell’imposta pagata dalla società sugli utili distribuiti (imputation system, proposto originariamente dalla Commissione Carter). In particolare, si parla di full imputation quando il credito a favore del socio rispecchia interamente quanto pagato dalla società. Anche la seconda possibilità di integrazione, quella che riequilibra il trattamento fiscale complessivo tra utili distribuiti e ritenuti intervenendo a livello societario, può assumere dal punto di vista operativo forme differenti: si può applicare ai soli utili distribuiti un’aliquota societaria agevolata (split-rate system) o addirittura un’aliquota nulla (zero rate method); oppure si può dedurre una quota dei profitti distribuiti dalla base imponibile della tassazione societaria (dividend deduction system).
Il panorama delle modalità di tassazione dei dividendi applicate nei paesi dell’OCSE (a favore dei residenti) è quanto mai vario (a titolo di esempio, classical system negli Stati Uniti e in Olanda, full imputation in Australia e Francia, partial imputation nel Regno Unito, shareholder dividend relief in Giappone, Svezia e Belgio), e per di più nel corso degli ultimi due decenni alcuni paesi hanno introdotto riforme che modificano il regime precedentemente adottato. Se qualche elemento di convergenza nelle riforme più recenti può essere riconosciuto, questo sta nel ripensamento in corso in vari paesi sull’ottimalità dell’imputation system e nella tendenza a un ritorno al classical system. In un quadro di crescente integrazione internazionale dei capitali, infatti, l’imputation system da un lato appare sempre meno efficace nel correggere la distorsione dei sistemi fiscali nazionali a danno del capitale proprio nel finanziamento delle imprese e, dall’altro, discrimina gli investimenti stranieri. Se le imprese possono finanziare i loro investimenti sul mercato internazionale dei capitali e il capitale è in grado di spostarsi liberamente, interventi unilaterali di riforma della tassazione personale dei dividendi decisi a livello nazionale influenzeranno solo marginalmente le loro scelte finanziarie. Inoltre, in assenza di una rete adeguata di trattati fiscali bilaterali, l’imputation system può discriminare le imprese e gli azionisti stranieri. Infatti, gli imputation systems nazionali non riconoscono generalmente alcuna agevolazione a favore dei propri residenti che siano soci di società costituite all’estero sulle imposte societarie pagate in altri paesi (outward investments); così come, specularmente, non estendono a soci non residenti il credito fiscale sulle imposte societarie pagate in sede nazionale (inward investments). Ne deriva un doppio incentivo, da un lato per i risparmiatori a sottoscrivere azioni nazionali, dall’altro per le società a generare i propri profitti in ambito nazionale piuttosto che su base internazionale, cioè a scoraggiare tanto gli outward investments quanto gli inward investments. Le difficoltà evidenziate dall’imputation system, insieme con gli spazi offerti a pratiche elusive, hanno spinto molti paesi, come accennato, a riconsiderare le soluzioni adottate per il trattamento fiscale dei dividendi. Ad esempio, la Germania nel 2002 ha abbandonato il full imputation system per passare a un sistema di integrazione parziale in cui solo metà dei dividendi ricevuti da investimenti sia interni che stranieri è assoggettata all’imposta personale progressiva (per una visione critica, v. Keen, 2002). L’Italia ha previsto nel 1997 la scelta tra full imputation e un sistema di shareholder dividend relief in relazione a specifici casi, mentre con la riforma fiscale di prossima attuazione verrà adottato un sistema simile a quello tedesco.
L’interrogativo se la maggiore mobilità dei capitali abbia effettivamente portato a una riduzione del carico fiscale complessivo sulle imprese richiede la considerazione congiunta di queste due linee di riforma (il taglio delle aliquote da un lato e l’allargamento della base imponibile dall’altro).
Gli effetti che gli interventi di riforma descritti in questo paragrafo hanno avuto sul carico fiscale complessivo sulle imprese, e in particolare sugli incentivi/disincentivi determinati dai sistemi fiscali sulle scelte di investimento e finanziarie delle imprese, possono essere valutati facendo ricorso a un indicatore ampiamente utilizzato in questo tipo di valutazioni, ossia le aliquote effettive marginali di imposta (di tipo forward-looking, cioè calcolate sulla base della normativa fiscale: v. King e Fuellerton, 1984; v. European Commission, 1992 e 2002). In particolare, le aliquote effettive marginali di imposta misurano la differenza in termini percentuali tra i tassi di rendimento pre- e post-imposta richiesti dal risparmiatore sui progetti marginali di investimento, sintetizzando in un unico indice tutti gli elementi costitutivi della tassazione societaria e di quella personale (in termini sia di aliquota che di base imponibile) che hanno effetto sulle decisioni di investimento. Al di là della restrittività delle assunzioni sottostanti alla loro determinazione (scelte di investimento ottimizzanti, competizione perfetta, rendimenti di scala decrescenti del capitale impiegato, investimenti infinitamente divisibili, ecc.), le aliquote effettive marginali, sebbene differiscano in misura consistente tra paesi, sembrano mostrare nel corso degli anni novanta una sostanziale stabilità. Il medesimo risultato si ritrova considerando altri indicatori proposti per la misura delle aliquote effettive: le aliquote medie effettive forward-looking, sviluppate da Michael Devereux e Rachel Griffith (v., 1998) e da Otto H. Jacobs e Christoph Spengel (v., 1999), le aliquote effettive backward-looking basate su dati micro a livello di impresa (v. Nicodème, 2001). Benché vadano accolte con cautela, queste indicazioni evidenziano dunque una discordanza tra riduzione delle aliquote legali e sostanziale invarianza delle aliquote effettive che può trovare spiegazione nel contemporaneo ampliamento della base imponibile della tassazione societaria (v. Gorter e de Mooij, 2001). Nel contempo, tuttavia, in molti paesi si sono in qualche misura ridotte le differenze di aliquote effettive tra investimenti finanziati con debito e investimenti finanziati con nuove azioni o profitti reinvestiti. A questa minore convenienza al ricorso al capitale di debito hanno contribuito sia il venir meno della forte inflazione degli anni ottanta (che è uno degli incentivi fondamentali al finanziamento con debito), sia ancora la contrazione delle aliquote legali sulle società. In conclusione, le riforme della tassazione societaria degli anni novanta sembrano non aver prodotto una riduzione significativa del peso fiscale effettivo sulle imprese, non fornendo per questa via adeguati incentivi agli investimenti, ma nel contempo sembrano aver segnato qualche progresso in termini di maggiore neutralità nelle scelte finanziarie delle imprese.
c) La tassazione del capitale finanziario
Negli anni novanta anche la tassazione del capitale finanziario ha registrato nei paesi europei una netta riduzione delle aliquote legali applicate a livello personale, sia sugli interessi (dal 46% al 37%) che sulle plusvalenze (dal 39% al 27%; v. Gorter e de Mooij, 2001). Questa caduta del prelievo sulle rendite finanziarie si è realizzata in alcuni paesi attraverso riforme che hanno sottratto le rendite finanziarie alla tassazione personale e progressiva e le hanno assoggettate a forme di imposizione separata di tipo proporzionale, generalmente ad aliquota contenuta, spesso tendenzialmente omogenee per tutte le forme di rendite finanziarie (questa tendenza all’omogeneità nei trattamenti finanziari si è manifestata anche in Italia con la riforma del 1997, pur partendo già da un sistema generalizzato di imposte sostitutive ma fortemente differenziate). Come discusso ampiamente nel cap. 3, § a, la crescente cedolarizzazione dei redditi da capitale ha trovato la sua realizzazione più compiuta nelle forme di Dual Income Taxation adottate in alcuni paesi scandinavi tra la fine degli anni ottanta e l’inizio degli anni novanta. Attualmente, più in generale, nell’area UE ben 8 paesi tassano gli interessi (sulle obbligazioni) percepiti da non residenti con forme di ritenuta definitiva (in taluni casi per opzione), peraltro adottando aliquote relativamente diversificate.
L’orientamento verso questo assetto fiscale nella tassazione dei capitali è riconducibile a due elementi già più volte richiamati. Da un lato, l’integrazione dei mercati dei capitali a livello internazionale – a seguito della liberalizzazione valutaria avviata in Europa a partire dalla direttiva comunitaria del 1988 e della diffusione degli strumenti informatici a supporto alle transazioni finanziarie – rende difficile accertare da parte delle autorità fiscali nazionali i redditi da capitale realizzati all’estero dai propri residenti e, al contempo, spinge ad attrarre i capitali degli investitori non residenti. Dall’altro lato, si rafforza l’esigenza di omogeneizzare all’interno dei sistemi fiscali nazionali i trattamenti previsti per le varie attività finanziarie, allo scopo di ridurre gli spazi per operazioni di arbitraggio fiscale e prevenire possibili comportamenti di natura elusiva, anche a seguito degli ampi processi di innovazione finanziaria in atto e, in particolare, della crescente diffusione dei cosiddetti contratti derivati (swap, futures, options). Va evidenziato, infatti, come mediante i nuovi strumenti finanziari sia possibile replicare le caratteristiche sostanziali degli strumenti finanziari tradizionali senza per questo ricadere nelle categorie formali previste dalla normativa fiscale, con conseguente difficoltà per le autorità a ricondurre questi proventi a tassazione (v. Alworth, 1998).
L’ovvia controindicazione a questa tendenza alla tassazione del capitale finanziario secondo aliquote proporzionali e relativamente contenute sta nell’indebolimento della portata ridistributiva del sistema fiscale nel suo complesso, tenuto conto che i redditi da capitale assumono un peso relativo maggiore nei livelli più elevati di reddito. Inoltre rimangono ancora, seppur indebolite secondo quanto discusso nel precedente paragrafo, le discriminazioni fiscali tra investimenti finanziati con debito e investimenti finanziati con nuove azioni o profitti reinvestiti.
Queste considerazioni generali vanno tuttavia meglio specificate, soprattutto con riferimento ai profili internazionali della tassazione delle rendite finanziarie. In un mondo in cui le autorità fiscali nazionali disponessero di una perfetta informazione circa i redditi prodotti all’estero dai propri residenti e in cui la mobilità internazionale dei capitali fosse limitata (prescindendo dall’elasticità nell’offerta del risparmio), ciascun paese avrebbe convenienza a imporre aliquote elevate sia sui redditi da capitale percepiti all’estero dai propri residenti, sia su quelli prodotti nel paese considerato dai non residenti.
Tuttavia, mancando questi due presupposti, ciascun paese avrà un incentivo a ridurre entrambe le aliquote in questione. Da un lato, se con la liberalizzazione valutaria le autorità fiscali non disporranno di adeguate informazioni sui redditi prodotti all’estero da parte dei propri residenti, tenderanno a frenare le fughe di capitali nazionali verso l’estero sottoponendo i residenti ad aliquote basse. Dall’altro lato, se la mobilità dei capitali è elevata, gli investitori stranieri localizzeranno i propri capitali nei paesi che sottopongono i rendimenti corrispondenti ad aliquote relativamente basse. Si avvia perciò un processo di competizione fiscale tra paesi che, in assenza di un loro coordinamento, porta a un’esenzione completa del fattore mobile (il capitale), ponendo tutto l’onere delle imposte sul fattore immobile (il lavoro; v. Razin e Sadka, 1991). Questo è ciò che in qualche misura è accaduto nei paesi europei: a seguito della liberalizzazione valutaria si sono diffusi, come sopra richiamato, regimi sostitutivi e agevolati sui redditi da capitale percepiti dai residenti e sono state progressivamente introdotte misure di esenzione totale o parziale dei redditi da capitale corrisposti a cittadini non residenti, con il conseguente aprirsi di una forbice sempre più ampia tra tassazione sul lavoro e tassazione sul capitale (v. sopra, cap. 3, § a).
La strategia per evitare la progressiva scomparsa di ogni tassazione sui redditi da capitale in ambito internazionale è ovviamente quella del coordinamento fiscale tra paesi. Nell’ambito del dibattito sulla materia in corso da tempo nell’UE sono state proposte due differenti modalità di coordinamento. La prima consiste nel promuovere uno scambio automatico di informazioni tra paesi sui redditi percepiti da non residenti (in termini di identità dell’investitore e ammontare dell’investimento). In questo modo sarebbe possibile superare il problema della non perfetta controllabilità da parte delle autorità nazionali e realizzare per tale via una tassazione dei redditi finanziari secondo il cosiddetto principio della residenza, cioè tassare il reddito da capitale esclusivamente nel paese di residenza dell’investitore (anche con aliquote differenziate tra paesi), esentandolo completamente nel paese dove è prodotto, o gravandolo di una ritenuta a solo titolo di acconto da scontare poi nel paese di residenza (principio della residenza mista). In alternativa, le diverse autorità nazionali possono concordare l’introduzione di una tassazione alla fonte minima e uniforme sui rendimenti da capitale percepiti dai non residenti. Questa seconda modalità realizzerebbe una tassazione coerente con il cosiddetto principio della fonte (cioè prelievo esclusivamente nel paese dove il reddito è prodotto, con esenzione nel paese di residenza dell’investitore) nel caso in cui la ritenuta alla fonte fosse considerata definitiva, con l’impegno dei paesi di residenza a non sottoporre i redditi a ulteriori tassazioni. La scelta dell’una o dell’altra modalità di coordinamento consente peraltro di evitare la doppia tassazione dei redditi percepiti da non residenti, una prima volta nel paese-fonte e successivamente nel paese di residenza dell’investitore. Una doppia tassazione determinerebbe, infatti, un disincentivo alla mobilità internazionale dei capitali, da un lato favorendo nella tassazione dei redditi prodotti in un dato paese gli investitori residenti rispetto ai non residenti, e dall’altro disincentivando i residenti dall’investire al di fuori del proprio paese di residenza.
La scelta tra tassazione secondo il principio della residenza o secondo il principio della fonte (e quindi la scelta tra le due modalità di coordinamento) può essere valutata con riferimento a una molteplicità di criteri: l’efficienza allocativa, la ripartizione del gettito tra paesi, l’effettiva implementabilità. Sul piano dell’efficienza vi è consenso tra gli economisti nel riconoscere la superiorità del principio della residenza (che comporta la cosiddetta capital export neutrality) sul principio della fonte (che invece implica la capital import neutrality: per una discussione, v. Keen, 1993; v. Sørensen, 1993). Tra le molte considerazioni possibili, va infatti rilevato che l’evidenza empirica mostra come le distorsioni dell’allocazione del capitale tra paesi (che sarebbero evitate dall’applicazione del principio della residenza) comporterebbero un costo in termini di benessere collettivo più elevato rispetto alle distorsioni del risparmio nel tempo (che sarebbero invece minimizzate dal principio della fonte). Quanto poi alla ripartizione del gettito, il principio della residenza nella sua forma mista consente accettabili attribuzioni del gettito complessivo tra i paesi coinvolti nell’operazione di investimento, mentre con il principio della fonte l’intero gettito viene necessariamente attribuito al solo paese in cui il reddito di capitale è prodotto. Sul piano teorico emerge dunque un vantaggio della residenza rispetto alla fonte; l’implementazione concreta del primo principio di tassazione richiede, come sopra discusso, maggiori costi in termini amministrativi e di accordo politico, comportando, diversamente dalla tassazione secondo la ritenuta alla fonte, la rinuncia all’anonimato nel prelievo.
Sul piano istituzionale, dopo quindici anni di sterili tentativi, nel gennaio del 2003 i ministri finanziari dei paesi dell’UE hanno raggiunto un accordo politico per la tassazione degli interessi percepiti da cittadini non residenti che configura una soluzione mista rispetto alle due modalità di coordinamento sopra discusse. L’accordo prevede infatti che 12 paesi dell’UE attivino a partire dal 2004 un sistema di scambio automatico di informazioni circa l’identità del percettore di interessi e l’ammontare degli stessi. Lussemburgo, Austria e Belgio si riservano invece di applicare il modello della ritenuta alla fonte (del 15% nei primi 3 anni e poi via via crescente negli anni successivi), corretto tuttavia per assicurare una ripartizione accettabile del gettito tra paese-fonte e paese di residenza (25% al primo, 75% al secondo). Tale ritenuta può essere considerata dal paese di residenza a titolo definitivo (comportando quindi, per questo ristretto nucleo di paesi, l’applicazione del principio della fonte), oppure a titolo di acconto (con realizzazione quindi del principio della residenza, ma con le evidenziate difficoltà applicative derivanti dalle carenze informative di cui soffrirebbe il paese di residenza). La compresenza dei due sistemi nell’ambito dei paesi dell’UE verrà poi meno se e quando troverà soluzione la questione critica dell’accordo con i paesi extracomunitari allo scopo di evitare fughe di capitali europei verso paesi terzi che garantiscono anonimato e bassa tassazione. È infatti evidente che i benefici finanziari dello scambio di informazioni, e quindi gli incentivi a implementarlo effettivamente, dipendono dalle informazioni ricevute dagli altri paesi e dalla conseguente possibilità di ridurre anche su questo fronte l’evasione fiscale. In particolare, tutti i paesi dell’UE passeranno al sistema dello scambio automatico di informazioni solo condizionatamente al raggiungimento di un accordo con un nucleo limitato di centri finanziari extra-UE (tra cui Svizzera e Stati Uniti, oltre a vari paradisi fiscali), in virtù del quale tali paesi siano disposti a uno scambio di informazioni su richiesta e a introdurre livelli di tassazione alla fonte simili a quelli applicati in Lussemburgo, Austria e Belgio. Va rilevato che la disciplina descritta riguarda soltanto il trattamento fiscale degli interessi. Questioni ancor più complesse si pongono quando si considerino i profili internazionali delle imposte sulle plusvalenze e sui dividendi, in quanto questi richiedono di considerare congiuntamente sia il livello della tassazione personale dei redditi da capitale, sia quello della tassazione dei profitti societari.
d) La tassazione indiretta
Pur presentando generalmente un elevato grado di eterogeneità nella sua articolazione interna, il comparto delle imposte indirette è dominato in tutti i paesi dell’OCSE da una Imposta sul Valore Aggiunto (IVA) che da sola garantisce più del 60% del gettito complessivo (fanno eccezione soltanto gli Stati Uniti, dove non esiste, a livello di governo federale, un’imposta generale sui consumi). Diversamente da quanto registrato nell’ambito della tassazione delle rendite finanziarie e dei profitti societari, nella media dei paesi appartenenti all’UE l’aliquota legale normale dell’IVA ha segnato nell’ultimo decennio una crescita, seppure contenuta (da 17,5% a 19,4%; v. Joumard, 2001).
Questa tendenza all’aumento delle aliquote normali si è tuttavia solo in parte tradotta in una riduzione della dispersione dei livelli di tassazione tra i paesi europei. Le pressioni verso la convergenza, che si sono concentrate sul finire degli anni ottanta ma sembrano essersi successivamente indebolite, riflettono le alterne fortune degli sforzi comunitari verso l’armonizzazione delle aliquote dell’IVA. I paesi membri hanno adeguato le proprie imposte sul valore aggiunto a un regime comune che prevede vincoli relativamente poco stringenti (fissazione di un’aliquota normale pari o superiore al 15%; possibilità di adozione di una o due aliquote ridotte comprese tra il 5% e il 15%; mantenimento di un’aliquota inferiore al 5%, purché già esistente). Molti paesi dell’UE hanno di conseguenza mantenuto aliquote ridotte, esenzioni o regimi speciali, spesso giustificati da considerazioni di natura distributiva, di politica industriale o da obiettivi di semplificazione, che fanno sì che i divari nel livello effettivo di prelievo tra sistemi nazionali europei siano attualmente ancora molto rilevanti (le aliquote normali variano da un minimo del 15% in Lussemburgo a un massimo del 25% in Svezia e Danimarca).
Le differenziazioni tra paesi rispetto all’IVA, anche se non sembrano distorcere più di tanto le scelte di consumo in generale, hanno effetti marcati sugli acquisti transfrontalieri nelle aree di confine e su specifiche tipologie di consumi (ad esempio i servizi turistici), aumentano la complessità del sistema di prelievo ed erodono fortemente la base imponibile. L’effetto complessivo di queste forme agevolative può essere misurato per ciascun paese dall’aliquota effettiva, calcolata come rapporto tra il gettito dell’IVA e la sua base potenziale. Con riferimento al 1998, nella media dei paesi dell’UE l’aliquota effettiva risultava inferiore all’aliquota normale di ben 10 punti (10,5% contro 19,4%, con divari particolarmente rilevanti nel caso di Italia, Belgio, Spagna e Svezia: v. Joumard, 2001; v. Van den Noord e Heady, 2001; v. Cnossen, 2002). Viene quindi confermata sia l’esistenza di spazi per un generale incremento della tassazione sul consumo, sia l’opportunità di ridurre le attuali non neutralità del prelievo. Una tassazione più pesante e neutrale del consumo potrebbe del resto offrire i margini di gettito per rendere effettivamente attuabile, nell’ambito dei vincoli stringenti imposti dalla disciplina fiscale europea, la riduzione del carico fiscale sui redditi da lavoro (v. sopra, cap. 3, § a) da molte parti invocata (v. Tanzi, 2003).
Anche nella tassazione del consumo, come nelle imposte sui redditi da capitale finanziario e sui profitti societari, sono i profili internazionali a rappresentare gli elementi di innovazione più significativi. Due fenomeni hanno in particolare posto in discussione le modalità tradizionali di tassazione degli scambi di merci e costretto a ricercare nuove soluzioni: da un lato, la costituzione nel gennaio 1993 del Mercato Unico Europeo, che ha reso possibile la libera circolazione delle merci nell’area comunitaria; dall’altro, la sempre maggiore diffusione del commercio elettronico attraverso Internet.
La creazione del Mercato Unico Europeo ha comportato, quale requisito essenziale per garantire la libera circolazione delle merci, l’abolizione delle barriere doganali tra paesi comunitari. Questa innovazione ha generato un lungo e ampio dibattito tra studiosi e policy-makers su quali siano le modalità più opportune di tassazione degli scambi di merci all’interno di un mercato unico. Analogamente a quanto discusso nel caso della tassazione dei capitali, è possibile evitare la doppia tassazione delle merci oggetto di scambi internazionali – e i disincentivi ai commerci internazionali a essa connessi – applicando il prelievo esclusivamente nel paese dove si svolge il consumo (il cosiddetto principio di destinazione), oppure nel paese dove si realizza la produzione (principio di origine). Il principio di destinazione è generalmente preferito sia sul piano della neutralità (rispetto alla situazione in assenza di imposte non distorce i prezzi relativi di due beni omogenei scambiati su uno stesso mercato ma provenienti da paesi differenti, pur in presenza di aliquote nazionali differenti), sia su quello della ripartizione del gettito tra paesi (attribuisce il gettito dell’IVA al paese in cui effettivamente si svolge il consumo). L’applicazione della tassazione secondo il principio di destinazione richiede tuttavia, in generale, l’esistenza delle barriere doganali, cioè di un luogo fisico dove accertare l’effettiva destinazione delle merci all’esportazione. In assenza di tali possibilità di accertamento, emergerebbe un incentivo per i produttori nazionali a dichiarare come destinate all’esportazione anche merci da commercializzare sul mercato interno, in quanto esse sarebbero in tal modo sgravate dall’IVA.
Queste considerazioni avevano indotto i paesi europei ad adottare, prima dell’avvio del Mercato Unico, il principio di destinazione quale criterio di tassazione dei commerci intracomunitari, e nel contempo ad avviare, in vista dell’abolizione delle barriere doganali, la riflessione sul passaggio dal principio di destinazione a quello di origine per gli scambi intracomunitari (Libro Bianco del 1985, Rapporto Cockfield del 1987). Tuttavia, come sopra discusso, la tassazione secondo il principio di origine avrebbe comportato esiti non desiderabili se, come auspicato nei documenti comunitari, non si fossero attivate opportune misure di correzione in termini sia di armonizzazione delle aliquote (per impedire distorsioni nei prezzi relativi), sia di ridistribuzione del gettito tra paesi (per evitare la completa attribuzione del prelievo ai soli paesi di origine con conseguente vantaggio per i paesi esportatori netti). Ma le resistenze politiche all’attuazione di questi interventi (come dimostrano, da un lato, le timidezze nel perseguire la strada dell’armonizzazione delle aliquote e, dall’altro, le difficoltà, anche di natura tecnica, a istituire una camera di compensazione per riattribuire i gettiti raccolti dai paesi di origine ai paesi di destinazione) hanno per ora consigliato un percorso meno ambizioso di riforma (il cosiddetto regime transitorio): il definitivo passaggio dal principio di destinazione a quello di origine, fissato originariamente per il 1996, è stato rimandato dapprima al 2000 e poi ulteriormente posticipato. Il mantenimento della tassazione secondo il principio di destinazione, nonostante l’abolizione delle barriere doganali, pone tuttavia rilevanti problemi di accertamento. La soluzione adottata nel regime transitorio si fonda essenzialmente sugli scambi di informazioni tra soggetti coinvolti: il fornitore comunica alla propria amministrazione finanziaria gli estremi dell’operazione di esportazione così come fa specularmente l’acquirente, e le due amministrazioni fiscali dovrebbero poter incrociare queste informazioni allo scopo di individuare casi di evasione. Questo regime ha tuttavia comportato difficoltà di applicazione pratica, accompagnate da un probabile aumento dell’evasione dell’imposta sugli acquisti intracomunitari, con il risultato di spingere la Commissione Europea a valutare possibili strategie di intervento (v. European Commission, 2000).
La rapida diffusione del commercio elettronico pone ulteriori problemi alla tassazione degli scambi internazionali di beni e servizi in termini di adattamento dei principî fondamentali, di effettività della tassazione e infine di eguale trattamento fiscale rispetto al commercio tradizionale (v. OECD, E-commerce…, 2000). Le difficoltà maggiori riguardano le cosiddette forme di commercio diretto, quelle cioè in cui l’oggetto della transazione elettronica è esso stesso un prodotto digitalizzato che può essere fornito direttamente via rete (ad esempio, software, informazioni, ecc.). Quando l’acquirente è un consumatore finale (non soggetto a IVA) la regola generale adottata in sede comunitaria per il commercio elettronico diretto, cioè la tassazione dello scambio secondo la normativa propria del paese dove avviene il consumo del servizio, risulta di dubbia applicazione e di difficile accertamento (il consumatore finale, che comunque non ha alcun interesse a denunciare l’operazione ai fini della tassazione, potrebbe risiedere nel paese A, inviare l’ordine di acquisto attraverso un sito ubicato nel paese B, chiedendo che il servizio gli venga recapitato presso un sito localizzato nel paese C). La soluzione delineata da una recente proposta di direttiva prevede che i fornitori non appartenenti a paesi dell’UE siano in questo caso obbligati a registrarsi presso un paese dell’UE, e che tassino le proprie operazione di commercio elettronico secondo le regole relative all’IVA di tale paese. Va tuttavia sottolineato che, in assenza di un adeguato coordinamento tra autorità fiscali nazionali, a oggi l’effettività della tassazione sulle transazioni elettroniche fa fondamentalmente affidamento sull’obbedienza volontaria dei fornitori non appartenenti all’UE che, quando non abbiano alcuna presenza fisica sul territorio europeo, sono come tali difficilmente accertabili.
ECONOMIA PUBBLICA. Storicamente, la scienza economica moderna nasce nel Settecento con l’affermarsi del principio della “mano invisibile” di A. Smith, per il quale l’azione egoistica di ciascun individuo conduce a una allocazione delle risorse efficiente, tale che non è possibile migliorare la condizione di un individuo senza peggiorare quella di almeno un altro. Conseguentemente, per lungo tempo gli economisti hanno valutato negativamente l’intervento pubblico nell’economia, sopportandolo soltanto come una interferenza necessaria in quei settori in cui non è possibile l’attività privata, senza auspicarne l’espansione. Dalla seconda metà dell’Ottocento, tuttavia, il desiderio sociale di una maggiore equità nella distribuzione del reddito e della ricchezza, l’approfondimento dello studio delle condizioni necessarie per il buon funzionamento del libero mercato e la crescente fiducia nella capacità dello stato di contribuire a determinare il livello del reddito di una nazione hanno provocato una imponente crescita del settore pubblico nelle economie occidentali. Nel Novecento, con una ben diversa consapevolezza rispetto al passato, la dottrina prevalente ha finito per individuare, negli anni Cinquanta, tre funzioni che debbono essere svolte dal settore pubblico: quella allocativa, quella redistributiva e quella di stabilizzazione.
Tra i principali strumenti di cui lo stato dispone per svolgere le sue funzioni vi sono: la politica di spesa, quella di prelievo dei tributi (imposte e tasse) e di riscossione degli introiti delle imprese pubbliche, l’esercizio di controlli diretti, la regolamentazione dei livelli o delle modalità di produzione e di consumo di certi beni e servizi, la determinazione dei loro prezzi. Tradizionalmente l’e. p. approfondisce soprattutto gli aspetti positivi e quelli normativi relativi ai primi due strumenti, che maggiormente concorrono alla determinazione del bilancio del settore pubblico.